Quando inizio a dire che ho sbagliato epoca in cui vivere, la gente alza gli occhi al cielo.
Per carità, in qualsiasi tempo fossi nata avrei sempre avuto da rompere e lamentarmi, però magari un paio di turbe psicotiche me le sarei risparmiate.
Lo so. Ho un rapporto con la tecnologia che spesso è morboso e a tratti impuri. Toglietemi il telefono con collegamento a internet e sarà come togliere il bastone a un cieco (prima o poi il trauma per questa categoria di disabili mi passerà. Non adesso, però, al momento continuo a odiarli).
Ma se fossi vissuta, per dire, a fine Ottocento, non avrei avuto l'angoscia di dover rispondere al cellulare a numeri sconosciuti.
No, me ne rendo conto.
Voler fare, tra le altre cose, la giornalista barra l’addetta stampa barra l’editor comporta di stare a bagno nella comunicazione. Di avere il telefono come estensione dell’arto. Di basare la propria giornata sul contatto con la gente, e non tentare di rifuggire qualsiasi esperienza diretta con sconosciuti.
Io, quando devo telefonare anche solo per prenotare una pizza, entro nel panico. Mi vergogno. La voce mi diventa strana, inizio a impostarmi, a recitare mentalmente una parte di cui non ricordo le battute. Mi impappino, la metà delle volte riattacco il telefono e faccio finta di niente. Non cenando, o cambiando direttamente menu.
Al lavoro poi (cioè, quando ancora avevo un lavoro, me misera me tapina), quando oltre al dialogo c’è anche da curare la parte che prevede il prendere appunti, ecco, lì vorrei essere altrove. Proprio dall’altra parte del mondo, eh. Entro così nel pallone che spesso scrivo quello che dovrei dire invece di ascoltare la risposta dell’interlocutore. Un genio assoluto.
Inizio a capire il motivo per cui sono stata licenziata.
Uhm.
Vi devo confessare che, quando la gente suona a casa, tiro fuori il peggio di me.
Se non aspetto nessuno, io non apro la porta.
Sì sì, faccio proprio come i vecchi. Evito di rispondere al citofono, faccio finta che in casa non ci sia nessuno, mi butto sotto il letto, mi distendo per terra facendo finta di essere morta, mi nascondo dentro l’armadio. Non ho dignità. Piuttosto che trovarmi di fronte uno sconosciuto dotato di parola e desideri comunicativi, ecco, preferisco stare nella vasca da bagno. Senz’acqua. Facendo movimenti autistici. Per almeno mezz’ora.
Nell’Ottocento non ci sarebbero stati tutti questi problemi.
Voglio dire, allora non esisteva questo gran numero di telefoni. Io, in quanto grafomane specializzata, sarei stata felice come pochi. La gente si scriveva. Mandava telegrammi, lettere, piccioni viaggiatori, segnali di fumo, messaggi in codice nascosti nelle cartoline illustrate. Ma non telefonava. E tantomeno si presentava a casa di qualcuno senza preavviso, anche solo per controllare il gas o la caldaia. Non c’erano di questi problemi.
Siamo d’accordo, c’era di peggio. Tipo il colera o la sifilide. E la mia convinzione che io, di sifilide, ci sarei morta sicuro.
Però, almeno, c’era una certa dose di inconsapevolezza. Di fatalità, di mistero. Di “che cazzo vuoi che ne sappia adesso? Se son rose fioriranno” e amenità simili.
Mica come oggi.
Con facebook e i social network in genere, sono più informata della CIA. Indago sulle cose che m’interessano (sulle persone, ok, lo ammetto, non iniziate a puntare il dito, siete come me) e non c’è proprio il rischio di sbagliare.
Di fare tutto da soli, quello sì.
Decidendo a tavolino, tra il mangiarsi le unghie e fumare sigarette, di cancellare per sempre dalla propria vita quella persona. O di eleggere quell’altra a unico e imperituro amore. (Fino a quello successivo, s’intende)
Un branco di compulsivi.
Ora scusate, devo aggiornare il blog, scrivere una mail a un giornalista, controllare LinkedIn e rispondere a un paio di commenti su facebook.
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