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About Me

La mia foto
Mi chiamo Martina. Sono oggettivamente piena di speranze. In cosa, non si sa. Poco in me stessa, molto nel futuro, troppo nel passato. Ho vissuto sei anni a Torino. Scuola Holden, poi giornalista per il quotidiano La Stampa. Attualmente sono tornata ad Arezzo, dopo sei mesi di densissima vita a Bologna. Ancora devo capire perché.

Disclaimer

  • Le foto su questo blog sono state recuperate da Pinterest e dal web. Nel caso conosceste i nomi dei fotografi, ditemelo. Sarà cosa gradita. Chiaramente i testi sono miei. Chi oserà rubarli / plagiarli / copiarli avrà l'immediata caduta delle dita delle mani, dei piedi, dei capelli e anche un po' di malocchio. Giusto per avvertire.

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lunedì 19 novembre 2012



Io ho sempre detto e professato una frase, neppure fossi Gesù nel tempio. Una Gesù con la gonna e le tette ingombranti, ma non è questo il punto.
Ho più volte declamato “rimetti a posto quello che c’è fuori, quando non sai ordinare quello che hai dentro”. Clap clap, mi facevo gli applausi da sola. Anche se poi non ho mai fatto niente di questo, sono sempre stata una fanciulla disordinata, un’amante dell’entropia estrema. Ma gli altri, gli altri questo mica erano tenuti a saperlo: l’importante era uscire con una frase ad effetto, lasciare le espressioni basite e, probabilmente, nelle loro teste la domanda “ma che cazzo ha detto??”.

Però ecco, adesso qualcosa è cambiato.
Ventisette anni e mezzo (sì, e mezzo, come quando si avevano sei anni e per sentirsi non proprio le pischelle di prima elementare si contavano i mesi, i giorni, probabilmente anche i minuti per sentirsi più grandi; ma perchè nessuno ha mai detto quanto avere accumulati sul groppone tanti giorni sia estenuante, faticoso, e tanto triste? Voglio un manuale da regalare alle mie numerose amiche incinta per evitare di crescere le figlie a suon di traumi), e per la prima volta nella mia vita mi sono iscritta in piscina.
Sì sì, sto facendo sport. Di quello da donne di mezza età, con un matrimonio allo sfascio, figlie tardoadolescenti che schifano qualsiasi contatto con la genitrice, con il mascara waterproof e il rossetto rosa confetto anche in acqua. Di quello che prevede costumi olimpionici orribili che schiacciano forme e strizzano culi, cuffie a pinolo, accappatoi di microfibra dai colori pastello e una totale assenza di erotismo. 

“con quel costume sei inchiavabile”
Lo ammetto, mi è stata detta anche questa frase. Ma io, stoica e fiera giovane donna bisognosa di attività fisica non orizzontale, non ci ho fatto caso e ho continuato.
In realtà ho pesantemente accusato il colpo e ho abbassato gli occhi sui cosciotti di pollo bianchi come un mobile LACK, sul costume Arena nero così-sembro-più-snella, sulle ciabattine infradito di plastica non accettabili nemmeno d’estate per andare al mare, figuriamoci d’inverno, e ho compreso di essere davvero inchiavabile. Almeno in quelle condizioni. Così ho scelto di rialzare lo sguardo, renderlo fiero, e scendere quei tre gradini di separazione dall’acqua riscaldata. In fondo c’erano le mie amiche cinquantenni ad attendermi per iniziare a muovere chiappe con l’aiuto di una cintura galleggiante.

Comunque.
A parte le declinazioni di mortificazione sessuale, ho finalmente scelto di aggiustarmi fuori. Una sorta di ristrutturazione dalle fondamenta. Certo, la casa non si può buttare giù e non si può trasformare in un loft; ma, almeno, renderla più accogliente sì.
Ho fatto degli enormi passi da gigante. Ho smesso di fumare. Cioè, in realtà ho smesso di fumare le sigarette vere donandomi anima e corpo a quella elettronica. Che però venerdì sera hanno scelto di rubarmi (ok, ero così sbronza che non riuscivo a mettere un pensiero dietro l’altro, quindi temo di averla persa, ma il mio orgoglio preferisce dire che qualche malintenzionato ha scelto volontariamente di sottrarmela). Così ne ho rifumate due-dico-due di quelle col tabacco, che si sa, se si è fumatori lo si è per sempre. E oggi ne subisco le conseguenze: mal di gola, senso di colpa, idiozia diffusa. Forse è il caso che segua il destino (?) e smetta davvero, una volta per tutte.
Mi piace quando mi redarguisco così, anche solo a parole. La mia coscienza sta meglio.

Poi c’è un altro aspetto da non sottovalutare: ho conosciuto le endorfine. Credo di volerne fare overdose: io, non avendo limiti o vie di mezzo, quando scopro che qualcosa mi piace pretendo di abusarne.
Masochismi di wertheriana memoria.
E poi. E poi è un modo per regolamentarmi (non regolarmi, no, qui si parla proprio di darmi da sola un regolamento: ritmo, tecnica, istruzione, disciplina, schemi, abitudine. Però non chiamatemi soldato palla di lardo) e tentare di dare, come dicevo, un ordine almeno a quello che c’è fuori. Che sia il fisico, la ceretta, il cibo, il taglio di capelli: bisogna pur partire da qualche parte. 
Da dentro no, pare mi sia scoppiata una bomba nel petto. Meglio un sano, superficialissimo guizzo estetico.





giovedì 11 ottobre 2012




Distintamente l'ho sentito. Il campanello d'allarme, dico. Ma, come ogni cosa che può spaventare o buttare al tappeto, ho cognitivamente scelto di ignorarlo. È così che è iniziato tutto: la fine. La fine, era proprio il suo inizio.

Quando sei in giro per locali e, invece di "andiamo", ti pare che la bocca del tuo prode amante abbia detto "ti amo", ecco, sappi che quel momento sarà il punto di non ritorno. Da lì inizieranno i guai, le sfighe, i drammi, il rapido e impietoso declino relazionale.
Non c’è scampo, davvero: c’è da mettere in conto che, quando la propria mente vuole sentire parole totalmente diverse da quelle pronunciate, c’è qualcosa da mettere a posto. Se stessi, in linea di principio.

I problemi di comunicazione non sono mai da sottovalutare. No, non sto parlando di lunghe e sterili disquisizioni su quanto sia arduo imparare il bon ton a tavola o di quando due persone non sanno dare lo scettro di peggior cantante italiano della storia a Vasco Rossi o a Gigi d’Alessio (voto sempre e comunque Vasco Rossi, scusatemi, proprio non ce la faccio), ma proprio di quando ognuno ha preso la propria tangente. Di quando, all’interno della coppia (ok, si, certo, è sempre di coppie e relazioni e sentimenti che sto parlando, d’altronde ho 27 anni e sono vittima di bombardamenti amorosi e ormonali, non ci posso far niente), ognuno crede d’esser chiaro con l’altra metà (della coppia, non della mela o baggianate simili. oddio, devo smetterla di usare le parentesi, è un declino anche questo, anche se questa forma paratattica rappresenta appieno la mia vita, ovvero cose accumulate alla cazzo), quando in realtà figuriamoci se c’è chiarezza o comunicazione. 
È come se ognuno dei due parlasse a se stesso. Non c’è ascolto, o almeno non quello vero. Ogni frase, ogni gesto, ogni forma espressiva viene interpretata secondo la propria ottica: se una persona vuole sentirsi amata, ecco, anche - e soprattutto - le parole non dette saranno ottima legna da ardere.
Ho detto “legna da ardere”? Fate finta di niente. 

I dolorini al cuore e alla testa iniziano quando, a furia di negare la realtà, a furia di mostrarsi per quello che non si è nella speranza inutile di piacere di più all’altro, succede lo sfacelo. È un po’ come aprire il vaso di Pandora: significa rendersi conto che ognuno è come se fosse uscito con se stesso, trombando se stesso, parlando con se stesso, allisciandosi da solo. Una masturbazione affettuosa. Che finisce con lo sporcare tutto. 

Quindi ecco, se non capite cosa dice la personcina che vi fa battere il cuore, annuite sorridendo.
O, nel caso abbiate sufficiente fiducia in voi stessi e coraggio, chiedete “che hai detto, scusa?”





mercoledì 19 settembre 2012




Ci sono dei giorni - come oggi, d’accordo, ma in generale in ogni momento che non sia estate, costellato da depressione sonnolenta, fastidio per qualsiasi cosa abbia vita e capacità solo di muovere il pollice per cambiare canale - in cui si prova un’avversione atavica nei confronti dell’umanità intera. Quando anche il pensare alla propria madre, alla dolce metà al lavoro, alla vicina di casa figa procura un rigurgito di (poco) velato malcontento. 
Per evitare di uscire con una lupara e provocare un genocidio, l’unica salvezza è la televisione. Indirizzare l’heine (l’odio chiama odio, cit.) verso quei personaggioni ripieni di botox e imbecillità ignorati da alcuni, adorati da molti, esecrati da me fa sentire davvero, davvero meglio. 
Ecco a voi parte di quella schiera di manichini di sesso femminile dal sorriso troppo bianco per risultare credibile che vorrei nel mezzo durante uno scontro no tav/polizia.

BARBARA GULIENETTI
Ora. Io vorrei che qualcuno con una parvenza di minimo senso del gusto provi a spiegarmi come un simile elemento riesca a condurre un programma di successo su RealTime. Lei è: insignificante. Manualmente una schiappa (non approfondiamo l’argomento: scivolare sul porno è semplice). Priva di simpatia. Incapace di creare un ambiente accogliente. Con l’unica capacità di trasformare un semplice oggetto utile in qualcosa di orripilante e, tendenzialmente, disutile (anche questa è opera di mia madre. i neologismi casuali, che meraviglia).
È la mia nuova, meravigliosa valvola di sfogo: maledire lei e le sue borsette fatte con un reggiseno vecchio dà un certo tono.

BENEDETTA PARODI
Io lei credo di odiarla. No, davvero, lei e quel suo buonismo da madre modella di figli monelli modelli nella cucina modella tra piatti modello. Non ci si fa. Valutando che è lì solo perché la sorella è stata un mezzobusto di riferimento (?), credo di considerare il suo spessore uguale a quello di una crêpe.
La cosa grave è che mia madre ha comprato il suo libro (sì, compra solo libri in vetta alla classifica: tra le 50 sfumature e questo si dimostra la perfetta cinquantenne italiana) e posso assicurare che le sue ricette sono prive di gusto. Mangiare una galletta di riso ha più dignità.

MANUELA MORENO
Ogni volta che guardo il Tg2, i miei occhi non possono fare a meno di rimanere ipnotizzati dal suo labbro superiore. Insomma, quel salsicciotto di silicone immobile che sta appoggiato sotto il naso. È più forte di me, non ascolto nemmeno ciò che dice, il televisore mostra solo quel dettaglio.
L’altro giorno, per dire, sopra il labbro aveva tre puntini bianchi. Uno due tre. Credo ognuno per ogni siringa di botulino fatta poco prima. 
Immagino che non riesca bene a farsi il bagno: starà a galla più di una Barbie. Favolosa, senz’ombra di dubbio.

BARBARA D’URSO
Lei è l’emblema delle presentatrici tv, la matrigna di Biancaneve, la strega della Bella Addormentata. La donna che mangia sulla tragedie altrui, colei che sicuramente nasconde cipolle sotto lo sgabello da tirar fuori quando non è inquadrata per poter piangere a comando, la signora che ha reso l’ipocrisia l’unico dogma della propria vita. E che fa espressioni così poco credibili che persino gli attori (?) di Centovetrine potrebbero vincere un Oscar.
Ecco, io a lei auguro che le si sciolga la faccia. Non solo il trucco quando fa finta di commuoversi.


Ok, la botta di acidità giornaliera è terminata. Ora sto meglio.


venerdì 14 settembre 2012





Sono trascorsi tre mesi dall’ultima volta che ho avuto la voglia, il tempo o la pazienza di sedermi con il computer tra le gambe e scrivere.
Però, in mezzo:
  • l’ennesimo cambio di città, di prospettive, di ritmi, di lavoro (?)
  • un’estate trascorsa come a quindici anni. Mare, bagni, amici, risate, bevute (alcoliche, non d’acqua salata), amori perduti e altri rivelati, capelli schiariti dal sole, riccioli gonfi, pensieri sciolti, respiro sereno.
  • una consapevolezza in più. Quella di volersi - e potersi - ritrovare.

Quindi, abbiate pazienza se ho latitato così tanto. Se adesso vi scrivo da una cittadina sperduta in mezzo a girasoli e cipressi (no, non è la nuova pubblicità del Mulino Bianco con Banderas - a proposito, ma perché quel pover’uomo da Zorro è diventato il dissociato che parla con una gallina? perché?), se ho preferito galleggiare come un morto nell’Adriatico invece di scrivere.

Come cercare giustificazioni: MODE ON

Che poi, diciamolo, io le riflessioni che ho fatto gonfiando e sgonfiando la pancia a ritmo sul pelo dell’acqua non le faccio nemmeno sotto la doccia. O quand’ero adolescente (ieri, insomma).
Ok, non me ne ricordo neppure una. È che le avevo trascritte sul telefono, oggetto a me avverso che ogni mese decide di voler essere resettato, così ho perso tutto. Ovviamente.
Però, seguendo la logica delle connessioni, credo che pensassi a quanto tutto, tendenzialmente, sia come galleggiare. Lasciarsi trasportare dalla corrente. Sospendersi. Non avere la percezione reale di quello che c’è intorno. Testa ovattata, corpo abbandonato.
Ok, a leggerle nero su bianco c’è da vergognarsi, quindi facciamo finta che non abbia detto/scritto/pensato niente. Shame on me.

È, tutto questo, un girare intorno al vero nocciolo del problema. Non giudicatemi, altrimenti smettetela di leggere ORA e andate a vedere i video dei gattini su youtube.

Ecco. Il discorso sul lasciarsi trasportare è in funzione del fatto che un pomeriggio tra tanti, come tanti, mia madre entra in camera ed esordisce con la seguente frase: 
“oh, invece di leggere quei mattoni che leggi te, ti ho preso questo, sicuro che ti piace!”
Alzo gli occhi e lo vedo.
Copertina nera, una cravatta grigia, un titolo.
Sì, quello.
Cinquanta sfumature di mer... ehm, di grigio.
Guardo mia madre con gli occhi del terrore. A metà tra l’incredulo e il disgustato. In silenzio, a gesti, glielo faccio appoggiare sul comodino. 
Esce dalla camera, io faccio finta che nulla sia successo, riprendo a ordinare con minuzia certosina le canzoni su iTunes. Però sento che qualcosa è cambiato, una vibrazione nella Forza, una presenza negativa vicino, troppo vicino. Così schiaffo il mac sul letto e lo guardo. Il libro, intendo, lo guardo e lo prendo. Mi dico “ok, conosci il nemico, leggi un paio di pagine, capisci cosa funziona, perché ne sono state vendute milioni di copie, comprendi cosa fa veramente schifo e poi basta, mettilo lì in fondo alla libreria, nascosto dall’enorme peso specifico di Céline e DFW”. 

Solo che. C’è un MA, grosso come una casa. 
Di quel cazzo di libro non ne ho lette solo poche righe. L’ho letto in tre giorni. Tutto.
No, nel senso. Non che mi sia piaciuto. È avvenuta però una strana perversione. 
Insieme a La solitudine dei numeri primi, è il libro più brutto che abbia mai letto. Giuro. Non sarebbe verosimile nemmeno si vivesse nel paese degli asini volanti: lui è un fantomatico miliardario ventisettenne che ha creato il suo impero dal niente, bello come il sole, che guida un elicottero e ha proprietà e aziende in ogni dove; lei una sciacquetta anoressica insignificante, vergine a vent’anni, che vogliono tutti. Ora che ci penso, credo che sia un plagio di Twilight. Comunque. 
Ogni descrizione è fatta di merda. La frase “baci leggeri come piume” è ripetuta ogni paragrafo e mezzo. Le sensazioni descritte sono patetiche, gli scenari incomprensibili, i rapporti di causa/effetto improvvisati. Non c’è linearità, non c’è neppure trasgressione (ora, da che mondo e mondo, dov’è sadomaso il tenere le mani legate mentre si fa sesso? DOVE?). Insomma, è un Harmony, un po’ più dettagliato nella descrizione di una trombata, ma pur sempre un Harmony.

Eppure questa casalinga di Voghera inglese pare che abbia rivoluzionato la trattazione della sessualità in campo letterario. 
Io mi chiedo perché.
Certo, il libro l’ho letto. E anche in fretta, ero come drogata. Però ogni due-tre pagine mi dovevo fermare, fare una faccia disgustata, bestemmiare contro il cattivo gusto della scrittrice e proseguire. Ma in sostanza ha vinto lei.
Ha vinto la mediocrità di un libro spacciato come innovatore.

Il marketing, cosa non può fare.
La masturbazione delle casalinghe, la nuova frontiera del porno.





venerdì 29 giugno 2012





Nel mentre che la mia pancia sta totalmente spellandosi e io tento di sopperire spalmandovi crema inutile (alle soglie dei trent’anni non è male non saper ancora prendere il sole, sembro un serpente viscido e scivoloso), riflettevo sui primi baci.

È ormai evidente che questo mio blog sia più per gli adolescenti che per i giovani uomini e le giovani donne attanagliati da crisi e peli superflui.
Ma tornate qui, non cancellatelo dai preferiti, continuate invece a diffonderlo nell’aere come una simpatica distrazione.

Perché i baci a cui faccio riferimento non sono quelli di quando avevamo 13, 14 anni. Ed eravamo a scoprire i primi sapori, a riconoscere le salive altrui come qualcosa di estraneo. Al mare, di notte, con la sabbia che entrava tra i capelli e i granelli a mischiarsi con la lingua.
Non quelli. Ma quelli di oggi.

Se ci pensate, è ben peggio.
Allora c’era la voglia di sperimentare, la curiosità di capire.
Oggi c’è ansia da prestazione e indecisione su come potrà andare dopo.

Una cara persona ha detto, una volta, che “non è mai il momento giusto per un primo bacio”.
Io credo che il problema sia tutto quello che ne consegue.

“Se ci baciamo adesso finiamo a letto, è inevitabile, no non è il caso, ho le mutande di Hello Kitty”
“Ho l’alito che sa di birra e sigarette, non ho neppure un chewing-gum, se lo bacio lo faccio svenire”
“E se poi bacia male? E se sbava?”
“Dove? Mi appoggio al muro? Guardo un punto a caso davanti a me? Lo fisso fino al momento in cui prende coraggio? Vado io?”

Non c’è mica da sottovalutare l’attimo prima del primo bacio. O del suo tentativo. 
L’ansia taglia le gambe, gli ormoni volano bassi (l’altezza è quella inguinale). Non si riesce a guardarsi negli occhi, ancor meno a non far sudare le mani. 
Si torna all’adolescenza, non c’è dubbio. Mancherebbero solo gli apparecchi per i denti. 
Però dopo, mentre finalmente ci si bacia, viene da ridere. Come se ci si fosse del tutto scoperti: si possono confessare le cose peggiori, i pensieri più assurdi, tanto ormai il grosso è stato fatto. Niente c’è di più intimo d’un bacio.

Poi c’è un momento di pausa. Una bolla di sapone che si rompe. La realtà che torna a insinuarsi, il saturo delle emozioni svanisce. E rimane solo la preoccupazione lieve per quello che sarà dopo, per quello che potrà nascere oppure no. L’attesa dell’indeterminato.

E poi. E poi ci sono le storie intrecciate, quelle dove non c’è niente di chiaro, quelle che partono per caso e continuano ancora più per caso. Magari nel mentre incontri altre persone, ne recuperi altre dal calderone del passato, ne confronti i termini e tenti di tirare le somme. Non riuscendoci. 

Io a matematica avevo 4 fisso, non è che sappia fare i conti con le questioni d’amore. Proprio no, non ci sperate neppure, al limite so farvi un paio di sottrazioni di dignità.

È buffo. I primi baci sono brutti. Non c’è sincronia, non c’è un grande trasporto. Solo una gran voglia di sciogliere quei nodi e quelle distanze accumulate nel tempo.
Il nodo è allo stomaco, ovviamente. E le distanze ormai nulle. 

Almeno per il momento.







mercoledì 27 giugno 2012





Decidere di farlo è stata la decisione più difficile della mia vita.
Dico iniziare il romanzo. Che avete capito, per il resto arrivate tardi...

Oddio, non che abbia proprio iniziato. Insomma, c’è la volontà. Un’intenzione sospinta dal non fare un cazzo ogni giorno, dall’essere in un periodo di totale e completo cambiamento, senza escludere il pepe al culo di tutte quelle persone che ho intorno qua a Bologna, come se fossimo tutti orfani erranti ritrovati qui per volontà più che per caso. Sante affinità elettive.

Comunque. Gli amici non c’entrano niente.
Oddio, in realtà c’entrano tutto. Pure troppo a tratti, dato che io non faccio altro che ascoltare i consigli di chiunque.

“devi scrivere la tua, di vita, hai avuto così tante sfighe che la gente potrà solo riderne”
“scrivi in maniera semplice, quando ti si legge non si capisce un cazzo”
“te i romanzi mica li sai scrivere, continua col blog, diventa la nuova Guia”
“buttati sul pornosoft”
“ma le poesie non ti piacciono? Manca una nuova giovane poetessa melodrammatica in Italia”
“dalla a qualcuno e fatti scrivere un romanzo a tuo nome”

Ecco. Potete ben capire che, in quanto a confusione, ce ne sia a sufficienza.
Non è che parta avvantaggiata, diciamo. 
Anche se poi, di idee, in fondo e in fine ne ho un sacco. Però appunto, sono idee. 
Ovvero, quel-qualcosa-di-astratto-che-non-riuscirò-mai-a-concretizzare. 
Sono una stronza, sul serio. E con me stessa. Proprio non riesco a farmi da una parte e organizzarmi. Vivo in un universo parallelo, a cinque metri da terra (ho detto cinque metri da terra, non tre metri sopra il cielo, mi raccomando), dove è tutto sempre bellissimo o terribilmente drammatico. Le vie di mezzo non so cosa siano, così come il venire a patti con la realtà. Realtà? What’s realtà? Uff.

Però sono giunta a un compromesso. Con la mia pigrizia soprattutto.
Scriverò di tutti voi. Sì, è una minaccia.
Nel senso, di me in relazione a voi. Sarete i protagonisti indiretti del mio (eventuale) accumulo di parole, definirlo romanzo mi pare un po’ azzardato.
Ok, cambierò i nomi e qualche dettaglio, certo, però saprete riconoscervi perfettamente. Altro che Dan di Gossip Girl (ok, ho visto tutte le stagioni, va bene? Sono dipendente dai vestiti di quelle donne, dal loro sculettare languido, e ancor più dalla totale assenza di talento che hanno i protagonisti, pur facendo i lavori più fighi della storia, mannaggia a loro), sarò io la vera voce della mia generazione (per lo meno di quella frangia di fallimentari sognatori senza futuro alcuno). 
Scusate, adesso torno nei ranghi. Mi ha fatto male vedere tutta la prima serie di Girls in 5 ore, di filato, senza quasi andare a fare la pipì. Chiamatemi Hannah.

Dicevo, scriverò in effetti della mia vita, di tutte quelle folli situazioni ai limiti del paradossale che mi sono capitate negli ultimi cinque-sei anni. Dal “ti amo ma non è vero” al “scusa, la mia ex è incinta, torno da lei”. Ovviamente ci metterò anche lui, Satana, Daredevil, insomma il cieco di merda ©. Si merita il posto di mostro finale, lui. 

Comunque. 
Inutile specificare che non abbia la minima idea di come strutturarlo, un romanzo. Non so da dove partire, come svilupparlo, e soprattutto come terminarlo. Serve un ordine, un progetto, una scaletta. La capacità di saper decidere.
Ma si sa, di chiaro nella mia vita c’è ben poco. 

Magari sarà la volta buona che riuscirò a dare un ordine alla confusione emozionale che c’è dentro.
Facciamo finta di crederci, và.




domenica 24 giugno 2012






"Quella di cui godevo in quei giorni afosi, camminando sui larghi marciapiedi di viale Manzoni e di via Merulana al riparo dal fogliame dei platani, era indubbiamente una felicità partorita da un'illusione: l'illusione di un piccolo numero di strade e incroci capace di suggerirmi la sensazione, razionalmente insana, che esistesse per me, come per chiunque altro, un luogo capace di farmi sentire a casa, qualunque disastro fosse in corso o mi pendesse sulla testa."
"Quella di cui godevo in quei giorni afosi, camminando sui larghi marciapiedi di viale Manzoni e di via Merulana al riparo dal fogliame dei platani, era indubbiamente una felicità partorita da un'illusione: l'illusione di un piccolo numero di strade e incroci capace di suggerirmi la sensazione, razionalmente insana, che esistesse per me, come per chiunque altro, un luogo capace di farmi sentire a casa, qualunque disastro fosse in corso o mi pendesse sulla testa."
"Quella di cui godevo in quei giorni afosi, camminando sui larghi marciapiedi di viale Manzoni e di via Merulana al riparo dal fogliame dei platani, era indubbiamente una felicità partorita da un'illusione: l'illusione di un piccolo numero di strade e incroci capace di suggerirmi la sensazione, razionalmente insana, che esistesse per me, come per chiunque altro, un luogo capace di farmi sentire a casa, qualunque disastro fosse in corso o mi pendesse sulla testa."

Emanuele Trevi




Tornarsene a casa dei propri genitori.
Anche solo per un paio di giorni, badate bene. Ma, in certi casi, il tempo sa essere davvero relativo. E stronzo.

Pare ti prenda in giro. Si allunga e accorcia all'inverso, proprio quando non vorresti. Una dilatazione da partoriente.
Per dire. Io sono ventiquattr'ore che sono tornata nel'infernale regno aretino. Minuto più, minuto meno.
E non è successo niente. 

Il caldo secca i pensieri, certo, oltre che i capelli e i campi farinosi. Ti tiene in ostaggio in casa, con le finestre abbassate, solo regolari spilli di luce dalla serranda a penetrare il buio. 
C'è un silenzio, poi, che è diverso. Più denso, che attutisce i suoni. Che mantiene il distacco tra ciò che è fuori. E ciò che è dentro.

Si sta distesi sul letto spoglio, a guardare gli oggetti e le ombre della tua infanzia sotto una luce diversa. A scrutare i muscoli delle gambe che si contraggono nello sforzo di trovare centimetri di fresco. A leggere risposte a domande appena accennate negli angoli del soffitto, blandi tentativi di sistemazione.

Ecco, è in questo contesto che il tempo non passa mai.

 Le quattro, pesanti come un colpo (cit.)

Che ci si focalizza su pensieri ossessivi, su piccoli fallimenti che diventano infiniti e immobili. E si somiglia a una mosca che sbatte contro il vetro, in un affannarsi nel tentare vie di fuga senza che ci sia un vero e proprio pericolo. 

Essere lasciati in balìa di se stessi può comportare effetti collaterali. 
Almeno nel mio caso.
Sono qui, in un'enorme casa vuota, che rimbomba e seda la socialità. Con un giardino da strappare, tagliare, ordinare. Un orto da bagnare. Un armadio da rimettere a posto.
Però preferisco pensare all'altrove. A strizzarmi il cervello con domande improbabili, le uniche che in questo momento riesca a farmi. Ad avere l'impressione che faccia sempre tutto da sola, che la mia vera specialità sia trovare scuse e dare risposte a quesiti inventati.

Cadere in depressione per conoscenti o quasi divenuti anime elette.
Crucciarsi su sorrisi non fatti, gesti evitati, parole di troppo.
Sentirsi in eccesso per scelte avventate, messaggi incauti, desideri precipitosi. 
Non capire dove sia la verità. O un suo abbozzo.

Non c'è verso. Le ore non trascorrono limpide, in questo bunker silenzioso.
No, non sto parlando della casa, parlo del cuore.




"Nella mia testa
c’è sempre stata una stanza vuota per te
quante volte ci ho portato dei fiori
quante volte l’ho difesa dai mostri

Adesso ci abito io
e i mostri sono entrati con me"
Michele Mari




sabato 23 giugno 2012





Arriva sempre, e non sai mica come.
Dico il momento in cui, qualsiasi cosa tu stia facendo, ti scatta qualcosa e poi non vedi più niente come un istante prima.

Cioè, sicuramente non è un'epifania, e neppure un'indicazione divina. è giusto il tuo cervello che si dice - tu ne sei all'oscuro, ovvio, le scelte migliori mica le fai con coscienza, la tua testa e il tuo cuore si riservano il diritto di gestirti come più amano, insomma alla fine sei solo un burattino nelle loro mani, e ringrazia che sia così - che è arrivato il tempo.

Di prendere consapevolezza, di fare il punto della situazione. Della vita, insomma. Però non con angoscia, sia chiaro. Ma con voglia di rivalsa. Di movimento, di frenesia. Perché di tempo ne è stato sprecato fin troppo.

Sarà stato cambiare l'ennesima città. Sarà stato il trovare persone nuove che mi hanno versato nelle vene voglia di vivere in maniera così semplice che, in confronto, passarsi il sale a tavola è un'impresa. Saranno stati i mille ostacoli di questi ultimi tempi, la grinta da dover tirar fuori, i picchi e gli abissi, le serate sprecate e quelle vissute fino all'ultimo sorso. Di birra e di gioia.
Ma riconoscersi, dopo anni, è davvero episodio degno di nota. 

Non che abbia risolto niente, questo è chiaro. Perditempo e procrastinatrice lo sono nata, e temo morirò tale.

Però, in determinati momenti a casaccio nella vita - costellazioni sconosciute, è un po' come guardare il cielo da un'altra prospettiva, cambia tutto, l'unica reazione possibile è la meraviglia e la riconoscenza - capita che non debba servire altro. Se non la semplicità di esserci, sentirsi, e un'immensa gratitudine nei confronti dell'universo. 

C'è chi sceglie la religione. Io credo di aver scelto la fiducia.

Di girarsi, in una notte fragrante di afa e asfalto caldo, e vedere che tutto è al suo posto. In un'entropia indispensabile. Su una bici dalla catena rumorosa, a piedi a testa bassa o fermo a un semaforo arancione. Tutto è lì. Basta saperlo vedere.

Ho iniziato a farlo. E non c'è da fermarsi, se non per legarsi una scarpa ogni tanto.




mercoledì 20 giugno 2012





Che poi, voglio dire.
Avere infinite ore davanti a sé di nulla più totale causa l’assenza di lavoro e un caldo micidiale (la rima non era voluta. chiedo perdono) che farebbe morire una pianta grassa porta a fare un paio di riflessioni.

Vi illustro la situazione.
Sono seduta su un divano di pelle. Seduta è un eufemismo, dato che sono scivolata così in basso (e in tutti i sensi) che immagino non si riesca a distinguere le mie braccia dai braccioli del divano. 
Comunque. Ho, nell’ordine:
  • alla mia sinistra un ventilatore. Fisso. Velocità 3. Indirizzato sulla mia faccia. Da almeno 4 ore.
  • alla mia destra un bicchiere d’acqua ghiacciata. Leggermente frizzante. Giusto leggermente, poi sennò gonfia.  
  • di fronte a me il computer, sulle ginocchia (ma và?). Un po’ più in là l’ennesima lavatrice stesa. Questa però non è la mia, è della coinquilina infermiera (che coup de théatre...)
  • intorno a me, tanto caldo. Troppo. Nemmeno avere le finestre totalmente chiuse e andare per casa a tentoni, sbattendo dappertutto (maledetto cieco, ancora ce l’ho con te, sì, non mi dimentico che ancora devi pagarmi molto di più di quello che mi hai dato), serve a qualcosa.
  • dentro di me, nel cervello, tra i buchi di ricordi e le voragini di speranze, la voglia di fare qualcosa che però continua a rimanere lì, a non concretizzarsi. Castrarsi da soli, il mio nuovo sport preferito.

Ok, avete presente la scenografia?
Bene, adesso pensate al dramma. Il cuore del plot, il fulcro della storia. Al di là dell’insicurezza totale sul futuro, sulla città in cui riuscirò a vivere, sul lavoro (ah, che dolce parola, che meravigliosa e vana illusione, che idillica attività) che farò, il problema è un altro.

L’attesa.
Manco fossi incinta.

Devo aspettare che mi richiamino da quel posto di lavoro.
Devo attendere la risposta per email da quell’altro posto di lavoro.
Devo sperare che da qui a qualche giorno cambi qualcosa.

Insomma, c’è solo da rimettersi nelle mani degli altri.
Sinceramente, è una cosa che non sopporto.
Già nelle mie (dis)avventure sentimentali, bisogna sempre tenerlo presente, ho la costante che tutti mi mollano per tornarsene dalla ex. O qualcosa di simile. 
Insomma, fanno sempre in modo che io non abbia possibilità di scelta, di movimento, di dimostrazione che forse potrebbe funzionare. No, non sia mai, troppo semplice, col cazzo che facciamo in modo di poterci innamorare di te, sei la seconda scelta, ricordatelo sempre (scusate. Mi stavo immaginando gli ex, tutti insieme, camminare verso di me come uno squadrone della morte mentre dicono tutti la stessa frase: “seconda scelta”. Stanotte avrò gli incubi, lo so). 
Dicevo, già c’ho da gestire l’impossibilità di gestire i sentimenti, ora devo anche gestire l’attesa di un lavoro, l’attesa di una risposta, l’attesa di svegliarmi da un letargo che dura da anni.
E, non da meno, l’attesa di scoprire cosa succederà nella mia vita. 





Però concedetemi una domanda spassionata.


Un amore così mi dite un po’ dove si trova? Si compra? Si ordina su internet?

Sempre ad attendere, eh.


domenica 17 giugno 2012





Caldo significa giugno.
Giugno significa matrimoni.
Matrimoni significa bouquet.
Bouquet significa una schiera di pazze isteriche che fanno finta di niente ma che si ucciderebbero pur di prenderlo al volo.

“Oddio no, figuriamoci, io sto in ultima fila, mica lo voglio”
“Non ho bisogno del mazzolino per sapere che presto il mio tesoruccio mi sposerà”
“È solo un gioco, non m’interessa se non sarò io quella a ricevere il bouquet”

E intanto calibrano, studiano, osservano, valutano la possibile gittata dei fiori. Finte si guardano tra loro, tra risatine stridule e tacchi dodici frementi. 
C’è chi sta ferma in un angolo. 
Chi in prima fila, sperando in un lancio debole. 
Chi quasi in fondo, andando avanti e indietro per parlare con le altre pretendenti.

Mi sono sentita Bukowski.
No, non scherzo. Chiaramente vestita meglio, profumata e meno unta di lui; però con la stessa misoginia intrinseca e nemmeno troppo nascosta. C’è da vergognarsi di appartenere alla loro stessa categoria quando si vedono dieci, quindici donzelle tendenzialmente intelligenti e belle incarognirsi come belve per afferrare al volo un po’ di fiori. Con la convinzione di potersi così sposare entro l’anno.

Il buffo è che quelle ragazze sono le stesse che, fino al giorno prima, inveivano contro il matrimonio. Costa troppo! C’è crisi! Non serve sposarsi per essere felici! Viva la convivenza! Che antiquati quelli che si sposano!
E poi schiumano come cani rabbiosi all’idea di perdere il lancio del bouquet.

Badate bene. Io non ho mai negato di volermi sposare. Anzi.
Lasciando perdere il periodo 14-21 anni, ovviamente. Lì ogni cosa che non fosse nera, triste, deprimente, con la parola SOFFERENZA o PATIMENTO impressa sopra non la volevo. Gli anni dark, che meraviglia. Non che ora sia cambiato molto, almeno dal punto di vista dei sentimenti masochistici. Però ecco, facciamo finta di sì.

Mi voglio sposare, fare figli, farmi una casa e tutte quelle belle cose là. Ho una cartella sul computer che è piena zeppa di foto di lustrini, veli, bomboniere, allestimenti di tavoli, fiori, strascichi, bandierine, addobbi e anelli. Una patologica wedding planner in erba. 
Però senza materia prima non è che si possa fare molto. Potrei sposare me stessa, ma già convivo con la mia essenza da 27 anni, direi che va bene così.
Si attende il principe azzurro, insomma. O qualcosa che lontanamente gli somigli. Lontanamente, eh.
Quindi il bouquet lo lascio alle altre. 
È ben più divertente osservare il tutto da fuori.

Io sotto al gazebo, bevendo bicchierini di prosecco che sembrano innocui, ma al quinto iniziano a rallentare la lingua e i movimenti.
Il lancio l’ho visto quando il bouquet è atterrato. 
A trenta centimetri da me. 
È stato lì, congelato e solo, per dei secondi lunghissimi. Il tempo pareva essersi fermato. Era bello, bianco, puro, docile. Apparentemente.
Poi si è scatenato l’inferno. Imbarazzi e illazioni. Scelte di parte e vociare nevrotico.
Disquisizione su chi l'avesse toccato. 

“Guarda che ha beccato me sulla spalla prima di finire a terra”
“In realtà io l’ho sfiorato per ultima”
“Lo deve prendere quella più vicina a dove è caduto”

Alla fine la più furba s’è avvicinata e, semplicemente, l’ha raccolto. Tra le silenziose ingiurie e gli auguri di morte da parte delle altre pretendenti. 

Io, nel mentre, sono andata a riempirmi di nuovo il bicchiere.
Le uniche cose che ho preso sono state due: il tappo dello spumante addosso e una sbronza colossale.

Prosit!



mercoledì 13 giugno 2012





Quando inizio a dire che ho sbagliato epoca in cui vivere, la gente alza gli occhi al cielo. 
Per carità, in qualsiasi tempo fossi nata avrei sempre avuto da rompere e lamentarmi, però magari un paio di turbe psicotiche me le sarei risparmiate.

Lo so. Ho un rapporto con la tecnologia che spesso è morboso e a tratti impuri. Toglietemi il telefono con collegamento a internet e sarà come togliere il bastone a un cieco (prima o poi il trauma per questa categoria di disabili mi passerà. Non adesso, però, al momento continuo a odiarli).

Ma se fossi vissuta, per dire, a fine Ottocento, non avrei avuto l'angoscia di dover rispondere al cellulare a numeri sconosciuti.

No, me ne rendo conto.
Voler fare, tra le altre cose, la giornalista barra l’addetta stampa barra l’editor comporta di stare a bagno nella comunicazione. Di avere il telefono come estensione dell’arto. Di basare la propria giornata sul contatto con la gente, e non tentare di rifuggire qualsiasi esperienza diretta con sconosciuti.
Io, quando devo telefonare anche solo per prenotare una pizza, entro nel panico. Mi vergogno. La voce mi diventa strana, inizio a impostarmi, a recitare mentalmente una parte di cui non ricordo le battute. Mi impappino, la metà delle volte riattacco il telefono e faccio finta di niente. Non cenando, o cambiando direttamente menu.
Al lavoro poi (cioè, quando ancora avevo un lavoro, me misera me tapina), quando oltre al dialogo c’è anche da curare la parte che prevede il prendere appunti, ecco, lì vorrei essere altrove. Proprio dall’altra parte del mondo, eh. Entro così nel pallone che spesso scrivo quello che dovrei dire invece di ascoltare la risposta dell’interlocutore. Un genio assoluto.
Inizio a capire il motivo per cui sono stata licenziata.

Uhm. 
Vi devo confessare che, quando la gente suona a casa, tiro fuori il peggio di me.
Se non aspetto nessuno, io non apro la porta.
Sì sì, faccio proprio come i vecchi. Evito di rispondere al citofono, faccio finta che in casa non ci sia nessuno, mi butto sotto il letto, mi distendo per terra facendo finta di essere morta, mi nascondo dentro l’armadio. Non ho dignità. Piuttosto che trovarmi di fronte uno sconosciuto dotato di parola e desideri comunicativi, ecco, preferisco stare nella vasca da bagno. Senz’acqua. Facendo movimenti autistici. Per almeno mezz’ora.

Nell’Ottocento non ci sarebbero stati tutti questi problemi.
Voglio dire, allora non esisteva questo gran numero di telefoni. Io, in quanto grafomane specializzata, sarei stata felice come pochi. La gente si scriveva. Mandava telegrammi, lettere, piccioni viaggiatori, segnali di fumo, messaggi in codice nascosti nelle cartoline illustrate. Ma non telefonava. E tantomeno si presentava a casa di qualcuno senza preavviso, anche solo per controllare il gas o la caldaia. Non c’erano di questi problemi.

Siamo d’accordo, c’era di peggio. Tipo il colera o la sifilide. E la mia convinzione che io, di sifilide, ci sarei morta sicuro. 
Però, almeno, c’era una certa dose di inconsapevolezza. Di fatalità, di mistero. Di “che cazzo vuoi che ne sappia adesso? Se son rose fioriranno” e amenità simili.

Mica come oggi. 
Con facebook e i social network in genere, sono più informata della CIA. Indago sulle cose che m’interessano (sulle persone, ok, lo ammetto, non iniziate a puntare il dito, siete come me) e non c’è proprio il rischio di sbagliare. 
Di fare tutto da soli, quello sì. 
Decidendo a tavolino, tra il mangiarsi le unghie e fumare sigarette, di cancellare per sempre dalla propria vita quella persona. O di eleggere quell’altra a unico e imperituro amore. (Fino a quello successivo, s’intende)
Un branco di compulsivi. 

Ora scusate, devo aggiornare il blog, scrivere una mail a un giornalista, controllare LinkedIn e rispondere a un paio di commenti su facebook.

Però non telefono.







Trovo sia stupefacente la capacità che ho di perdere tempo.
Per dire.
Più di un’ora fa mi sono detta “oh, basta, adesso ricomincio a scrivere. Due cagate eh, giusto per riprendere l’allenamento, per rimanere in forma, avere il fisico perfetto per l’estate" (uhm, in effetti. Dimagrire e scrivere sono due preoccupazioni costanti, negli ultimi giorni. I campi semantici s’intrecciano).

Poi, nel mezzo, ho:

  • pulito il bagno per la terza volta in questa settimana
  • messo in ordine l’armadio
  • sistemato le scarpe in ordine cromatico
  • fatto foto da hipster come una quindicenne, pure un po' da troia
  • parlato/litigato/bestemmiato con mia madre al telefono
  • usato le lenzuola come mantello dell’invisibilità dietro cui nascondermi per proteggermi dall’orrore del mondo, ma si vede che non ha funzionato dato che continuo ad essere appesantita dallo stesso carico di merda
  • aggiunto compulsivamente foto su pinterest, cliccando col mouse alla velocità della luce (tunnel carpale addio)
  • compreso quanto tutto sia abbastanza inutile, dunque forse scrivere qualcosa potrebbe essere l’unico modo per sfogarmi ed evitare di fumare quarantasei sigarette in mezz’ora.

Ognuno ha le proprie peculiarità. Le proprie carte vincenti, un campo in cui eccellere.
Ecco. Io so perdere benissimo il tempo.

(È passata un’altra mezz’ora, ho fatto il caffè, l’ho corretto col latte, ho fumato una sigaretta e, visto che c’ero, ho pure caricato la lavastoviglie. Che donna attiva.)

Pensatela come volete, ma è un’arte. Il procrastinare è mestiere mica da tutti.
Certo, nel mentre perdi buona parte della tua vita a non fare un cazzo, ma vuoi mettere la soddisfazione?
Che poi è buffo seguire il percorso. Guardate con me, proprio da lì, dall’inizio.
Io parto gasatissima. Entusiasmo a palla, so che ho le capacità per fare tutto quello che ho in mente. E forse anche meglio di come immagini. In testa è tutto molto chiaro, sempre, i passi da compiere, le riverenze, i volteggi, tutto.
Faccio per passare alla pratica. Qui si rompe qualcosa. È come se il corpo non rispondesse ai comandi. Come se fosse guasta la comunicazione tra pensiero e azione. Una totale disadattata.

Qualcuno, una volta, mi disse che sono un condominio di personalità.
Perfetto, si vede che la maggior parte degli inquilini è una barca di stronzi. Gente che, durante le riunioni, non aspetta altro per attaccar briga.
Tipo la vecchiarda del quinto piano, che insiste a dire di essere vedova, anche se tutti sanno che suo marito è scappato con la ex (una storia vera: le mie ultime relazioni hanno questo plot. Giuro). O il giovine scapolo del primo piano, sempre a fare il grosso, ma che in fondo fa lavori ridicoli solo perché è terrorizzato dal mettersi in gioco. Per non parlare della portinaia: la donna che dovrebbe curare e gestire il palazzo, rendere quieti i rapporti tra il vicinato, ma che invece non fa altro che impicciarsi dei fatti di chiunque. Un modo come un altro per evitare di pensare alla pochezza della propria vita.

Io ho questo condominio, dentro. Ora spiegatemi come posso fare a insegnare a ciascuno di loro la collaborazione per evitare il baratro.
No, spiegatemelo. E visto che ci siete, trovate al giovine un lavoro. E pure a me.

Va bene. Devo smetterla di giocare a The Sims.








Diciamola tutta. 
Spesso e volentieri si tenta di fare qualsiasi cosa per smuoversi, per migliorarsi, per progredire, ma indiscutibilmente si rimane immobili. 
Mosche contro la luce al neon. Capocciate al muro.
Nel senso.

Io ho cambiato tre città. Svariate case. Numerosi lavori (?). Innominabili fidanzati. Parecchi tagli di capelli. Tanti sorrisi con tante lacrime. Il tutto nella convinzione di avvicinarmi sempre di più a un ordine di vita. Una linearità d’intenti, un amalgama di desideri e realtà, un insieme pastoso ed armonioso.

Col cazzo.


No, ma che poi ho appena acceso la televisione. BeautifulKinderDeliceCentovetrineZanzareMariadeFilippiWindParodi. 
M’è venuto il dubbio di essere già all’inferno. 
Però, poi, anche questo mi serve per capire che tutto quello che ho sempre pensato voluto immaginato sognato illuso (illuso, sì, la riflessività è un concetto opinabile) è altro. 

Mi ritrovo a ventisette anni. Cresciuta con tutti quei film e quei libri che ti hanno convinto che, prima o poi, la casa e la famiglia del Mulino Bianco saranno le tue. Che avrai il lavoro figo e la persona giusta accanto. La perfetta forma fisica, il perfetto sorriso bianco da regalare come caramelle in giro. 
Cresciuta con la perfetta convinzione di essere formata. Di avere una certa cultura, una certa dignità. Una posizione, una forma mentis brillante e corretta. Di essere una persona stimabile. Amabile. Più del vino.
Ecco, qui c’è una falla. Non perché si debba amare il vino più di me (dipende dal vino, ecco almeno non paragonatemi a un rosso del Todis, andate su qualcosa di più particolare, un fugato siciliano, un fremente francese, insomma). 
Ma perché, calandomi nella gente, tra la gente ci si accorge sempre che tutto quello che si crede è davvero relativo.

Hai scoperto l’acqua calda, brava cogliona.
No, non ho scoperto l’acqua calda né cose che già non sapessi. Solo che sto andando a un altro livello di ragionamento. Stronzi. 

È che è sempre questione di fiducia. Di correttezza, di onestà. Di forza, se vogliamo.
La forza di mostrarsi. Di-mostrarsi. Senza pretendere di essere altro.
Discorso banalissimo e qualunquista, ma se ci pensate bene, ecco, ci si dimentica sempre. Affannati come siamo da far vedere agli altri di cosa si è capaci, si perde di vista il punto focale. 
Essere. Se stessi. 
Nel proprio delirio e nelle proprie mancanze. Nelle proprie lacune, in tutto quello che non si potrà proprio avere, e in tutto quello che ancora deve arrivare. Senza aver paura. Dato che la paura somiglia un po’ alla storia di Giovannino. 
http://www.webalice.it/claudio.conti8/favole14.htm


Oggi mi è difficile. Dico, essere poco retorica. Ma c’ho rimuginato tutta la notte e tutta la mattina, tra braccia incastrate male, mani addormentate, piedi avvinghiati almeno quanto i pensieri, curricula consegnati a casaccio, risposte ricevute altrettanto a casaccio. 

C’ho pensato, e ho capito che farsi venire il fiatone per correre dietro a chi non gliene frega un cazzo è utile come voler convincere un toscano a diventare vegetariano.
Badate bene: non sto dicendo di non insistere. Di mollare la presa, di rassegnarsi allo svolgersi degli eventi. Al contrario. Sto dicendo di smetterla di essere quello che gli altri vorrebbero che tu fossi.
Essere un po’ meno fichi. E più onesti.

Non si è ancora finito di studiare? Pazienza, hai fatto altro nel mentre. 
Non hai un cristo di lavoro degno, per quanto tu possa avere il potenziale? Continua a cercare.
Non hai ancora una casa tua, un uomo tuo, un progetto serio da perseguire, uno sguardo sicuro con cui osservare il mondo? Meglio, altrimenti sai che noia.

Facciamo finta che sia così. 

Nel mentre, continuo a demolire e costruire me stessa. 
Tentativi svariati, prima o poi s’imbroccherà quello giusto.
Il problema è che più per meno fa meno. La risultante è sempre negativa.
Matematica del cazzo.