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Mi chiamo Martina. Sono oggettivamente piena di speranze. In cosa, non si sa. Poco in me stessa, molto nel futuro, troppo nel passato. Ho vissuto sei anni a Torino. Scuola Holden, poi giornalista per il quotidiano La Stampa. Attualmente sono tornata ad Arezzo, dopo sei mesi di densissima vita a Bologna. Ancora devo capire perché.

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  • Le foto su questo blog sono state recuperate da Pinterest e dal web. Nel caso conosceste i nomi dei fotografi, ditemelo. Sarà cosa gradita. Chiaramente i testi sono miei. Chi oserà rubarli / plagiarli / copiarli avrà l'immediata caduta delle dita delle mani, dei piedi, dei capelli e anche un po' di malocchio. Giusto per avvertire.

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domenica 10 giugno 2012





Credo che si chiami legge del contrappasso.

Quando, di fronte a vecchi amici che ti domandano aiuto per far entrare due sconosciuti nella redazione del giornale per cui scrivi banalità a tempo perso (perso è il tempo che impieghi nel convincere i capi che meriteresti l’assunzione, beninteso), ecco, quando davanti a simili richieste chiudi con un ghigno demiurgico la mail di supplica, lì scatta il contrappasso.

Dovrebbero fornire il foglio d’istruzioni, quando ci si affaccia nel mondo del lavoro. O nella vita in genere. 

“Regola uno: aiutare sempre chi ti chiede una mano. Anche a costo di lasciarti soffiare da sotto il naso il posto di lavoro. Non si può mai sapere.”

In fondo la Bibbia dice più verità del previsto. Ma quest’assioma non credo di volerlo accettare. Non adesso, almeno.

Dovrebbero fornire il foglio d’istruzioni, dicevo, perché senza si rischia di sbagliare tantissimo. In generale, e nel non aiutare il prossimo. Scatenando così una catena apocalittica in confronto alla quale Murphy è un principiante. 
Perché, nell’arco di una settimana, quella senza lavoro sono io. Così. A caso. 

“È che non sai fare la contabilità”
“Guardi che sono stata assunta per fare l’assistente di produzione di spettacoli,  mica per seguirle la ristrutturazione della casa al mare e le bollette che non paga”

No, ma poi dico. Non sarebbe certo dovuto essere il lavoro della vita. Solo un ponte, un modo per guadagnare dei soldi (uff), rendermi indipendente (blabla), cambiare città (sput), ricominciare a vivere (ahah). È stato così per duemesidue. Poi, baratro. 

Sono le sei di un pomeriggio qualsiasi. Metà settimana. Ho già cambiato le lenzuola, spazzato, steso una lavatrice. Ordinati la dispensa e il frigo, mi sono buttata sul letto poi sul divano poi sulla sedia poi sul letto. Contato i capelli bianchi che ho tra un ricciolo e l’altro, i chili in eccesso e promesso di mettermi a dieta.
Mangiato una carota bramando un Pimm’s Cocktail. Desiderando pure un po’ più di stabilità, un po’ di chiarezza. Un lavoro, certo. Ma anche un fidanzato, una casa mia, la voglia di scrivere un romanzo, un pomeriggio all’Ikea, un barattolo di Nutella e le patatine. Da mangiare alternati. 

Considerando che, a pensarci attentamente, questi miei desideri hanno in momenti diversi la stessa importanza, si può facilmente evincere che non abbia troppa chiarezza in testa. La tassonomia della mia vita ha un che di enigmatico.

O meglio. So cosa voglio, credo, momento per momento. È il disegno d’insieme che manca. E, cosa non da meno, il percorso per arrivare a ogni scopo. La mappa del tesoro, la cartina per il galeone di Willy l’Orbo. 

Quelle stracazzo d’istruzioni per l’uso.





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