Total Pageviews

Powered by Blogger.

About Me

La mia foto
Mi chiamo Martina. Sono oggettivamente piena di speranze. In cosa, non si sa. Poco in me stessa, molto nel futuro, troppo nel passato. Ho vissuto sei anni a Torino. Scuola Holden, poi giornalista per il quotidiano La Stampa. Attualmente sono tornata ad Arezzo, dopo sei mesi di densissima vita a Bologna. Ancora devo capire perché.

Disclaimer

  • Le foto su questo blog sono state recuperate da Pinterest e dal web. Nel caso conosceste i nomi dei fotografi, ditemelo. Sarà cosa gradita. Chiaramente i testi sono miei. Chi oserà rubarli / plagiarli / copiarli avrà l'immediata caduta delle dita delle mani, dei piedi, dei capelli e anche un po' di malocchio. Giusto per avvertire.

Contact

Nome

Email *

Messaggio *

mercoledì 30 ottobre 2013




Io non lo so se sia un problema nato dopo capolavori come La finestra sul cortile (sì Hitchcock, parlo proprio con te, uomo che fai film della madonna e sforni una delle mie pellicole preferite - Vertigo, che domande - per poi lasciare sguarnito il cinema di registi degni), ma ecco, le dinamiche tra vicini di casa sono parecchio inquietanti.

Già qui avevo parlato brevemente di chi vive intorno a me. 

Voglio tralasciare il padre cinquantenne che mi spia dal balcone quando lascio la finestra aperta: ho rimosso la sua faccia per evitare di avere incubi.

Non abito in un condominio, ma ho case così tanto attaccate che posso aiutare i vicini a chiudersi le cerniere lampo dei vestiti. 
Ed è così da sempre, da quando ho memoria.

Allo stesso modo, da sempre quando ci si trova in giro, ovunque si sia, facciamo finta di essere perfetti sconosciuti.

L’altra sera, per dire. Ero nel mio locale di riferimento a bere il mio cocktail di riferimento. D’estate è il moscow mule, d’inverno il white russian. Ora che è una stagione a caso, diciamo che faccio dei mischioni che la metà basterebbero. Parentesi alcolica chiusa, lo giuro.
Dicevo. Ero in questo locale a fare beatamente del sano gossip serale sterile e cinico e TAC, mi si materializza accanto la mia vicina di casa. Tutta in tiro e col compagno a traino, seduta composta sullo sgabello accanto al mio.
C’è stata un’occhiata. Rapida e di traverso, per non esporci troppo da essere costrette a salutarci. Io la riconosco, lei riconosce me. 

D’un tratto mi tornano in mente tutti i ventotto anni trascorsi a pochi metri di distanza. Le urla che sento tra lei e sua madre, con un livello di due-tre volte al giorno. Talvolta anche con qualche piatto tirato per alzare la media della drammaticità. I discorsi uditi inavvertitamente, i momenti d’intimità da bagno - non sto a scendere nei dettagli - e da camera da letto. Credo che i primi ansimi sessuali non li abbia ascoltati in un film porno, no, provenivano dalla stanza della mia vicina. Robe turche.

Poi, fuori, il nulla.

Sicuramente anche lei mi ha vista nei peggiori modi. Come allieva di catechismo a otto anni (sic), come adolescente isterica a fumare di nascosto dalla finestra, come fuggitiva notturna col fidanzatino kapò dell’epoca (lunga storia), e ovviamente mezza nuda davanti all’armadio a fare prove su prove su cambi su cambi d’abito. 

Quindi ecco. Il quieto vivere e il mantenimento di una dignità si risolvono solo in un modo.
Io spio te, te spii me. 
Ma quando siamo fuori, ecco, non ci si conosce.

Ho bevuto in fretta il mio white russian e sono uscita. Occhi bassi, disagio alto.


Rauss.






domenica 27 ottobre 2013




È domenica, è scattata l’ora solare, il tempo è più grigio della ghisa e sono in modalità “non riuscirete mai a scrostarmi dal letto” dopo l’ennesimo weekend tra amici. Vodka. Discorsi seri. Gente importante. 

Ho una felpa vecchia di almeno dieci anni e il cappuccio tirato sopra la testa, ancora - o già - il pigiama (sono solo le 18, più o meno), i calzini di lana e il piumone che inizia a somigliare alla cuccia di un cane per tutte le cose che ci faccio: ci mangio, bevo, dormo, scrivo. 
Questa breve parentesi trash per farvi comprendere la mia situazione quando penso alla sfilata di moda cui sono costretta a partecipare ogni stracazzo di weekend che scelgo di trascorrere per le ridenti viuzze del centro storico.

Arezzo è una città media. Media città nella media Italia, in una posizione media tra nord e sud. Medie le possibilità che ti fornisce, medi gli spazi di divertimento e socializzazione.
Ma se c’è una cosa in cui eccelle, no, non è l’oro o l’organizzazione di festival (Arezzo Wave, pardon Italia Wave non esiste più, quindi fatevene una ragione). No. Eccelle nello sfornare sbarbini e sbarbine vestiti di tutto punto come se dovessero recarsi al matrimonio di William e Kate. 

Io, a questa generazione nata negli anni 90, per cui i capelli lunghi e vaporosi e i rossetti rossi e i tacchi 15 e le borse di marca e i vestiti d’alta moda e i pantaloni acqua in casa e il ciuffo alla Pattinson e le giacche dal risvolto alzato sono un dogma, ecco, io vorrei insegnare solo una parola.

CHITTESENCULA.

Esci il venerdì sera per un aperitivo e la tua unica preoccupazione è che non ci sia umidità altrimenti ti si scompiglia la piega? Chittesencula.
Stai seduta sugli scalini della piazza e assumi una posizione innaturale solo per mostrare le scarpe dal tacco argenteo e le lunghe gambe abbronzate dalle lampade? Chittesencula.
Parli che sembri una papera per mettere in evidenza le labbra, muovendo muscoli facciali che il 99% della gente comune non sa neppure di avere? Chittesencula.
Ti ritrovi con i tuoi amichetti dal pantalone stretto a rischio sterilità per osservare quante persone possano notarti? Chittesencula.
Esci con il buio e, nonostante questo, indossi gli occhiali da sole per avere più carisma e sintomatico mistero (cit.)? Chittesencula.

Ecco, avete capito.
Vivere in una città dove le persone più giovani sembrano uscite da Vogue ha del difficoltoso. 
Soprattutto se io i tacchi li ho, ma sono tutti bene in ordine vicino alle scarpe della mia infanzia, immersi in litri di formalina. Se io le borse le compro al mercato e a farmi i capelli ci vado se va bene una volta all’anno. 

Bisogna curare quello che c’è sotto, vorrei dire a questi giovani.

Per dire, io i soldi che ho li spendo in lingerie di pizzo. 
Sopra una stracciona, ma sotto eleganza.


Sempre che non si parli di pigiami.




giovedì 24 ottobre 2013





Ci sono alcuni aspetti, nell’universo finito dei ricordi, che la maggior parte delle persone preferisce lasciare intonsi piuttosto che rischiare di ricondurli al presente.
Tanti non amano tornare nei luoghi dell’infanzia, sarebbe altresì mortificante scoprire quanto piccolo fosse il parco giochi e del tutto privo di fascino l’albero su cui ci si arrampicava alteri.
Altri optano per l’evitare i ristoranti, gli alberghi e le mete turistiche già vissuti con altre persone: la malinconia d’un passato penoso è difficile da arginare. 
Per non parlare delle persone in carne e ossa: certi, avvistando da lontano un vecchio compagno delle elementari, magari appesantito dal tempo e dalla figlia appesa al braccio come arto fantasma, fanno finta di immergere il viso dentro la borsa o cambiano repentini viuzza, sperando di farla franca.

Io non sono così.
Non in tutto, almeno.
Ieri, per dire, ero a casa. Il giorno prima avevo espresso il fanciullesco desiderio di poter rileggere Topolino. E ieri, tac, una persona insostituibile me l’ha portato.

Eh sì, Topolino. 
Io ero una di quelle bambine che ha avuto l’abbonamento per almeno 4/5 anni di fila. Che non vedeva l’ora che arrivasse l’estate per montare le sorprese allegate al giornalino, che trascorreva ore all’emporio vicino casa per decidere se prendere Minni (quello con i bordi delle pagine ogni volta colorati in modo diverso, e con dentro le notizie e i consigli e le confidenze per una bimba così bimba da far finta di non voler crescere mai), Paperinik o i Grandi Classici in attesa del mercoledì successivo.

E dal momento in cui decisi che basta, era giunto il tempo di avere letture più da grandi (Cioè, non dimentichiamocelo, era roba filoporno per l’epoca), non ho più osato rileggerlo.
Ieri la sorpresa. Il timore anche, la paura, l’orrore.
La vergogna col cazzo.

L’ho sfogliato, l’ho annusato, l’ho letto tutto in poco più di un’ora. Non tralasciando nemmeno i nomi dei redattori e della segreteria organizzativa (è sempre bene tenersi informati, si sa mai che possa lavorare per la Panini prima o poi).

E l’ho amato come quando avevo otto anni.
I tre nipotini insopportabili come sempre, Giuditta la più dolce e sfortunata di tutte, nonna Papera una sclerotica rompicoglioni, Topolino e Minni la coppia più fastidiosa della storia, Paperina una sbarba egocentrica, zio Paperone da stendere col gas e rubargli l'oro, la sfiga di Paperino rincuorante nel pensare alla propria.

Non ce n’è: potete citarmi Proust e Calvino, Pavese e la Dickinson. Pure la stessa Plath, mia amata musa.
Ma questo giornaletto resta inarrivabile. 


E chiamatelo poco!




martedì 22 ottobre 2013





L’acquisto di un pigiama è sempre un trauma.
Io, che non porto/compro/indosso calzoni per scelta oculata da almeno sei anni, sono ancora più in difficoltà.

Ogni donna sa.
Sa che andare a provarsi un paio di pantaloni, dopo un po’ che non ci si pesa e che non si sa quanti chili si siano presi, provoca sempre strane palpitazioni e sudori freddi lungo la schiena. Ora, visto che la vita è già difficile di suo, ho scansato il problema smettendo direttamente di indossarli. E di sapere quale taglia ho.

Per il pigiama la questione è un po’ più problematica. 
Si dividono in due categorie:
  • più sono brutti, più sono caldi e comodi
  • più sono sexy, meno ti stanno bene.

Io, partendo dal presupposto che ancora indosso quelli che mi regalò mia nonna a dodici anni e quelli che mia madre non mette perché “hanno l’elastico dei pantaloni che tira troppo”, non faccio testo. In uno ho degli orsi e dei pinguini che sciano, in un altro un panda che va a dormire russando. Chiaramente entrambi da abbinare con i calzettoni di lana, a righe se va proprio di culo.
Addirittura ne ho uno che ormai, quando cammino, scivola a terra e mi ritrovo in mutande, con le braghe al ginocchio. Per questo lo fermo con un elastico per capelli, ma forse questo dettaglio non lo volevate sapere.

Tutto ciò, spero sia chiaro, quando dormo da sola. Quando non c’è nessuno a vedermi e sono trincerata in casa, lontana anche dagli specchi per il timore di poterli rompere.

Quando so di dover dividere il letto con qualcuno, invece, ci sono più soluzioni, a seconda del grado d’intimità e di interesse nel voler essere richiamata il giorno dopo.
Si può dormire nudi. Rischiando polmoniti e bronchite fulminante.
Si può indossare un baby doll tutto pizzi e trasparenze. Che pizzica la pelle peggio d’una maglietta della salute di lana e che ti farà sembrare tutto tranne che eccitante mentre tenti di grattarti la pelle senza dare nell’occhio.
Si può rubare la camicia o la t-shirt del proprio amante. Stando bene attente a non prendere quella con cui è stato a correre, si rischierebbe di avere più l’odore di un tombino intasato che di una sexy lolita.

Stamani, per andare sul sicuro, ho acquistato un pigiama di quelli di fascia media. Così brutto da poter sembrare quasi simpatico. 
Più sul filone trash che su quello erotico, non ho saputo resistere alla mega scritta sulle tette “eat me”. Riferita però a un gigante cupcake con le fragole stampato accanto. 

Io e la lussuria: un’unica cosa.

In un altro universo, credo di sì.



lunedì 21 ottobre 2013





È proprio nei pomeriggi di pioggia di fine ottobre, quando non ti farebbe mettere il naso fuori di casa nemmeno la presenza di Johnny Depp nel bar del quartiere, che scegli di farlo.
Scegli di aprire lo scrigno dei ricordi e dei rimpianti, peggio, il vaso di Pandora, peggio, la frusta per il tuo culo (cit.): la scatola delle fotografie.

Ora, siamo d’accordo che tutti noi abbiamo ormai le foto in digitale. Che facebook e un hard disk esterno sono il nostro personale album fotografico. Ma converrete con me che le foto più amate, quelle a cui più siete ed eravate legati - e non parlo solo di quando avevate due anni e vi hanno congelato in una pellicola mentre vi facevate la pipì addosso - continuate a stamparle. Poi le riponete in un album e ve ne dimenticate, ma ancora - spero bene - si perdura nello sviluppo. 

Ecco. Oggi l’ho fatto. 
Con la scusa del “tanto non ho un cazzo da fare, ordiniamo un po’ le foto dell’infanzia”, ho aperto una voragine. Nell’armadio e nel cuore.

Vedi i tuoi genitori a vent’anni. Così belli e spensierati da sembrare finti. Un padre a metà tra Luigi Tenco e il Freddo della banda della Magliana. Una madre che sembra uscita da una pellicola di Buñuel. Li vedi così, e capisci che una simile felicità sia praticamente estinta.

Vedi tuo fratello piccolo e biondo, con gli occhi candidi e curiosi, e non ti capaciti di come possiate essere, adesso, così lontani. Rette parallele, sconosciuti con lo stesso sangue.

Vedi parenti di cui non ricordi nemmeno più l'esistenza, e i nonni ancora con qualche capello grigio in testa, che ti tenevano in braccio orgogliosi di tanta paffutezza. 

Vedi gli amici dell’estate, gente che non incontri da almeno quindici anni, che pensavi sarebbero stati legati a te per sempre. I luoghi di un’adolescenza bellissima e scomparsa, così come quelle spiagge dalle sdraio di legno. Asfaltate per far posto a chissà quali nuovi ombrelloni in alluminio.

Vedi te stessa, dalla nascita a pochi anni fa. Vedi i tuoi capelli cambiare e l’espressione rimanere identica. Vedi le tette crescere parallelamente al culo, il cotone sostituirsi all’acetato. E vedi gli stessi occhi osservare spesso fuori campo, come alla ricerca d’altro, dell’altrove, di quello che non c’è.

E poi vedi le persone che non avresti voluto rivedere. 
Anche se bidimensionali, spalmate su una carta lucida. 
Che ti ricordano come tu voglia sempre far finta di poterle chiudere dentro una stanza dedicata ai fantasmi. Ma che, come ogni fantasma che si rispetti, ci sarà sempre un’ora in cui verranno a smuovere le catene e a fare un casino della madonna.

È per questo che nella tua infanzia hai imparato a memoria Ghostbusters, però.

Viva Peter Venkman.



sabato 19 ottobre 2013





Fu la frase epica di una mia amica che, non troppo tempo fa, dopo i bagordi dell’ultimo dell’anno ebbe un po’ di problemi nel contenimento dei liquidi, diciamo così.
Da allora è stata costantemente presa per il culo, una sorta di bersaglio facile dallo stomaco debole. 
Ecco. Fino ad adesso.

Sono sul letto. Il piumone a fare da sudario, una felpa col cappuccio a nascondermi, una camomilla accanto, un’aspirina dentro lo stomaco, svariati ricordi della notte di ieri assenti e la netta percezione che il mio corpo mi stia mandando dei segnali piuttosto evidenti del suo disagio.

Capisci di stare invecchiando quando, il giorno dopo una serata alcolica, sembra che ti abbiano messo sotto con un camion. E deliberatamente fatto marcia indietro e ripassato sul corpo inerme.
Io non ero così. Cioè, un mio orgoglio era poter dire “mantengo sempre alta la dignità persino quando alzo il gomito”

Non più.

Non quando fai finta di essere sobria e in realtà fai fatica a rimanere in equilibrio.
Non quando ti rovesci addosso, da seduta, mezzo bicchiere di White Russian e l’unica cosa che ti viene in mente è lo spreco di alcool, mica gli stivali da buttare. 
Non quando sei convinta di fare discorsi interessanti e con un certo livello di profondità e, invece, chi ti ascolta recepisce solo gorgoglii e farfugli.
Non quando non ricordi le persone che hai visto, con cui hai parlato e riso per una buona mezz’ora.
Non quando, nel bel mezzo di una conversazione seria, fermi la persona che parla alzando la mano in segno di stop e, con educazione, esclami “scusa un attimo, vado a vomitare”. 
Non quando, in un hangover degno dei migliori film americani, ti riduci a cercare su google le parole "rimedi per il doposbronza".


No, la dignità credo di averla affogata in qualche bicchiere di troppo.





venerdì 18 ottobre 2013





Io, non so voi, ogni volta che guardo una commedia sul grande schermo inizio senza pietà a fare il bilancio della mia vita.
Voglio dire, tralasciando le meraviglie anni 50 di Wilder o le brillanti uscite di testa di Allen dei primi tempi, ogni altra commediucola americana degli ultimi vent’anni ti pone davanti a un’unica, amarissima verità: sei ormai più vecchia dei protagonisti, hai ampiamente superato l'età dei personaggi cui succede di tutto. E, osservando la tua vita, comprendi come ancora tu sia agli albori della realizzazione, ai suoi esordi, probabilmente fuori tempo massimo per sperare di poter brillare. Come a dire "tesoro, o fai tutto entro i trenta, oppure avrai una vita del cazzo".

In media, nelle commedie cinematografiche *realistiche* una persona a ventotto anni è nel bel mezzo di una sfavillante carriera, quella che si è sempre desiderato. O, se non lo è, tutto il resto della sua vita è pronto a indirizzarla nella giusta direzione. È di bell’aspetto, vive da sola, probabilmente in un attico arredato dai migliori designer del mondo, o in alternativa ha una famiglia incredibile e un compagno con soldi a palate. La sua pelle è liscia e luminosa, i capelli sempre in ordine, le bollette e l’affitto mai un problema. Il suo armadio è stracolmo di vestiti di cui il più economico costerà almeno 1000 euro, e per stare in casa non indossa certo la tuta di acetato delle medie (cit.), ma un morbido maxicardigan di cachemire.
Non deve mai fare benzina, non trova mai traffico, non ha bisogno di guardare la strada ma può serenamente intrattenersi in chiacchiere e balletti con gli altri passeggeri dell’auto. 
Il periodo scolastico e universitario l’ha trascorso in uno schiocco di dita, senza problemi o bisogno di studiare, ma in compenso è stata la protagonista indiscussa di svariate feste e flirt con fighi colossali che tu, persona comune, non troverai nemmeno alla settimana della moda di Milano.
Ha dei genitori simpatici e caratteristici, forse un po’ invadenti a volte, ma sempre divertentissimi e a cui poter perdonare tutto.
Per non parlare dei vicini di casa: le volte che non si dimostrano anime gemelle, sono almeno almeno i migliori amici di una vita.

Poi, poi penso alla mia, di vita *realistica*. Di anni ne ho sì ventotto, ma di carriera conosco solo quella ippica. 
Non vivo certo da sola, ma in compagnia dei genitori per il motivo di cui sopra. I miei sono care persone, s'intende, ma da qui a essere delle macchiette ce ne corre. I miei capelli sono per la metà del tempo annodati e crespi come dei rasta, il vestito più costoso che ho l’avrò pagato 69 euro in occasione di un matrimonio - con tanto di conseguenti bestemmie.
La macchina è sempre in riserva, i balletti li faccio per evitare bici e pedoni suicidi, ancora l’università è lì che mi guarda in cagnesco per averla abbandonata, e certo i fighi non si interessavano me. 
E i vicini di casa? Da una parte ho la gattara che parla da sola e ti tira i gatti in faccia se la guardi male. Dall’altra un padre cinquantenne che mi spia dalla finestra mentre mi cambio.


#maiunagioia





giovedì 17 ottobre 2013





Lavare la macchina, soprattutto il suo interno, per una donna spesso corrisponde ad azione così pesante e drammatica da essere procrastinata fino a data da definirsi.
Incredibile come le abitazioni femminili siano intonse e linde come una sala d’ospedale, e come le macchine di proprietà ginecetica siano paragonabili al secchio della monnezza.

Io, solitamente, lavo l’auto - se va bene - una volta all’anno.
L’esterno non è un problema: ci pensa la pioggia. L’unico inconveniente possono essere le malefiche cacche dei malefici piccioni, ma con una rapida passata di tubo di gomma - e successiva grattugiata con spugna - passa la paura. 

L’interno, l’interno è argomento a parte. 
Per rimandare il lavaggio a lunedì ventordici uso le seguenti scuse, spesso anche tutte insieme:
- non ho tempo. Devo frequentare un corso di yoga/riposare gli occhi/distendermi un’ora/andare in libreria/cercare ginger ale in tutta la città
  • eh, tanto sta per piovere, che senso ha pulirla? 
  • non so dove ho messo l’aspirapolvere
  • ho finito il Vetril
  • macchè, è a posto, basta soffiare via un po’ di cenere ed è come nuova

Tutto questo riesce a ridurre un’automobile più simile a una discarica che a un mezzo di trasporto.

Ricordo la macchina di una mia insegnante al liceo: appoggiando il viso al finestrino, ovviamente sporco di uno strato di polvere che nemmeno nelle case abbandonate, si potevano vedere relitti di confezioni di Crispy McBacon, volantini dell’Ipercoop, bottiglie di plastica, buste di carta, multe non pagate, cappotti dell’inverno precedente, un cuscino, trucchi sparsi, pacchetti di sigarette vuoti, libri senza più copertina. 
Probabilmente viveva lì dentro, a pensarci bene.
Giurai che quella non sarebbe stata la mia fine. È altresì ovvio che stia facendo di tutto per diventare come lei, ma tant’è. 

Poi arriva il momento in cui la dignità prende il sopravvento, principalmente perché si teme che, nel fare anche solo un breve tragitto in auto, si possa rischiare di sporcare il vestito appena lavato solamente poggiando il culo sul sedile. 
Così ci si arma di tutto l’occorrente. Rassegnazione, aspirapolvere, panno, detergente, sgrassatore, secchio della spazzatura. Molto grande, ecco. 

La pulizia, se fatta una volta all’anno come da prescrizione, regala infinite sorprese.

Avete presente quella spilla che era della povera nonna, persa chissà dove, a cui avete pensato per molti giorni? Molto bene. Era sotto il sedile. E quella sigaretta elettronica, creduta smarrita in un locale dopo l’ennesima serata di baldoria? Avevate dimenticato di controllare tra i cd. Senza tralasciare le forcine, gli orecchini, gli occhiali da sole. Gli accendini. Funzionanti, per lo più. E i soldi. Così tante monete da avere abbastanza credito per un sabato sera.

Dopo un’oretta, la macchina torna ad avere una parvenza di normalità. Non sa più di portacenere bagnato, si può toccare la radio senza doversi pulire il dito sporco di polvere, è possibile sedersi anche dietro senza dover scrostare sedimentazioni di buste, ombrelli e maglioni. 


Ma non v’illudete: l’entropia è sempre dietro l’angolo.



mercoledì 16 ottobre 2013





Una cosa che mai riuscirò a comprendere è perché la natura abbia creato degli animali in grado di strisciare, nascondersi negli angoli e fare CROC quando li schiacci. 
Voglio dire. Tutti amano i gattini, tutti si struggono vedendo un cucciolo di panda o una giraffa nell’atto di allungare il collo per mangiare le foglie. Allo stesso modo, ogni donna perde dieci anni di vita ogni volta che uno scarafaggio si sposta da sotto il frigorifero al battiscopa o una cavalletta marroncina atterra con nonchalance vicino al piatto in cui la gentil fanciulla mangia, d’estate.
Non so cosa scatti, quale atavica paura prenda il sopravvento, in quale mostro alieno ci siamo convinte che possa trasformarsi ogni insetto se entro cinque secondi non viene ucciso. Fatto sta che questa è una piaga sociale con dei risvolti invalidanti.

Io, per dire, amo la campagna.
La possibilità di svegliarmi in un luogo da cui non si sente il traffico delle strade, dove la sera d’estate c’è il rumore dei grilli e, nei pomeriggi domenicali, vecchi alberi sotto cui sdraiarsi a leggere. Un sogno è riuscire ad avere un vecchio casolare da rimettere a posto, un giardino enorme con fiori, gazebo, ulivi e un ruscello (non rompete le balle, almeno nei sogni non voglio risparmiarmi nulla).

Però. Però c’è un problema. Il fatto che quel casolare non sarà mai di mia proprietà, ma sarò sempre inquilina dei veri padroni: i ragni. 

Per capire che effetto mi fanno, vi illustro una scena capitata non troppi giorni fa. Non farò nomi, la privacy delle persone coinvolte è importante. Sono pur sempre donne con una certa reputazione da difendere. Sempre che non vi siano insettacci nei paraggi.

Lunedì di fine estate. Tempo che volge al brutto, nuvole scure, umore pessimo. Per non rischiare di buttarmi sotto all’espresso delle 4 (cit.), con M.G.G. vado a casa di F.C. per vedere un film, fumare quarantasette sigarette, staccare il cervello e non sentirmi più sola nel mio mare di disagio.
Serata tranquilla, tutto nella norma. Fino al momento del congedo.
Prendo il paltò, lo indosso, mi accingo alla macchina insieme a M.G.G. e chiudo la portiera. Sento qualcosa in mano, mi convinco che sia un filo tirato del cappotto, apro il palmo e lo vedo. 
È lì, mi osserva, con tutti quegli occhi, con tutti quei peli bianchi. Un attimo durato cent’anni, i minuti successivi dentro una bolla d’autismo.

Urlo. In tre secondi netti riesco a: 
  • aprire la portiera e scapicollarmi fuori
  • togliermi il cappotto, sempre continuando a urlare
  • addossarmi meglio di un geco alla porta d’ingresso di F.C., battendo disperata il pugno implorandola di farmi entrare.

Lei s’affaccia, occhio del terrore, e dal fondo delle scale osserva la seguente scena.
M.G.G., presa dal panico nel vedere me uscire di senno, mi fa da controcanto nella sequela di schiamazzi e, non paga, si sente camminare il ragno addosso. Così, saltellando per entrare in casa, si denuda del sotto della tuta, rimanendo in maglietta, mutande e Superga. rigorosamente bianche.
Io, ormai con il cervello abbuiato, finisco di spogliarmi e, dopo essermi nascosta dietro la poltrona, capisco in un guizzo di lucidità che non è luogo sicuro e decido d’arrampicarmi sopra il piano della cucina. Su cui sto appollaiata per dieci minuti buoni. Fino al momento in cui F.C., avendo vissuto la scena in maniera indiretta, comprende la gravità dell’evento e si arma di una bottiglia d’acqua, un rotolo di carta igienica e il catalogo di Mondo Convenienza. Quello con la costola dura, potente e pesante come un mattone. Tutto molto inutile, o quasi.
Ci consiglia di rivestirci: il nemico potrebbe ancora essere nell’abitacolo dell’auto.
Dall’alto della nostra esperienza io e M.G.G. annuiamo, recuperiamo gli abiti e, trasformando i telefoni in torce, controlliamo la macchina. Il tutto urlando in silenzio: il panico non se ne va da un istante all’altro, e che cazzo. Ma i vicini dormono, quindi c’è da chetarsi.
Lo vedo di nuovo. Lui torna a guardarmi con quegli occhi impertinenti, fa un cenno di sfida e si nasconde tra il sedile e la cintura di sicurezza. 
Nessuna delle tre sa come procedere. Ho di nuovo un attimo di autismo in cui mi accascio al suolo ondeggiando per pochi secondi, che serve però per farmi trovare il coraggio necessario a farlo. 
A fargli fare CRAC. Col catalogo piantato di traverso.

Immagino che i resti di quel mostruoso essere siano ancora nella macchina. 
Ma, almeno, ce n’è uno in meno.







martedì 15 ottobre 2013



Questa storia della morte di Stephanie di Beautiful - io, non paga, ho anche scritto a riguardo un articolo su La Stampa - ha avuto bisogno di qualche giorno di silenzio per essere digerita nel buio della mia cameretta.
Non scherziamo, non stiamo mica parlando di quisquilie. Siamo andati a toccare un mostro sacro, un elemento imprescindibile, una pilastro nel fiume in piena delle vacuità.
Togliere lei da una delle soap più longeve e affidabili nella storia della tivù - solo Sentieri la supera - è come togliere a ogni donna, a ogni ragazzina, a ogni essere umano con una parte femminile sufficientemente sviluppata la terra da sotto i piedi. 

Facciamo un passo indietro. È necessario per farvi capire questo mio ingestibile choc che si va a riversare anche su tutti gli altri aspetti della mia vita, dalla fiducia in un futuro migliore alla costruzione stabile di una famiglia.
Io, da quando ho memoria, ho sempre collezionato soap opera. Colpa di mia madre che, fin dalla più tenera età, m’infarciva la testa e gli occhi di pipponi melodrammatici ed enfatici (poi ci si chiede perché la mia vita sentimentale sia bucata e sfranta come una camera d’aria).

Dallas, Santa Barbara, Un posto al Sole le più accreditate. Ma nel mio immaginario, nel mio immaginario vi è una telenovela che si è incisa a fuoco: EDERA. Poche puntate per una lacrimevole e travagliatissima storia d’amore, con tanto di abbandoni, perdite di memoria, tradimenti e perdoni. ‘Na roba atroce. 
Poi la madre era anche una finta cieca. Adesso mi è chiaro perché lo scorso anno, lavorando dal ciecodimerda © a Bologna, fossi così intrinsecamente disturbata. 

Senza altresì cincischiare, seguitemi. Immaginate una bambina di otto anni circa. Capelli a caschetto, occhiali tondi dalla montatura rossa di metallo, una spiccata passione per i libri di Roald Dahl e con un numero spaiato di scarpe per le Barbie. Adesso collocate questa bella bimba in una camera grande e spaziosa, con un letto dalla testata bianca e rosa, un armadio con tanti vestiti colorati, innumerevoli fotografie di sé neonata e grassa appese alle pareti e una televisione regalata dalla nonna per la Comunione. Molto bene. Sappiate che quella televisione, ufficialmente di proprietà della bambina, poteva essere guardata solo in compagnia della madre. Che, dopo cena, si poneva indiscriminatamente sulla poltrona vicino al letto della piccola e, impugnando con alterigia il telecomando, si sintonizzava su Canale 5. Sulla sigla di Amedeo Minghi faceva durare le lamentele della povera vittima, ovvero io, quanto il bercio d’un gatto (cit.).

L’aspetto veramente drammatico è un altro. Queste telenovele serali le ho viste tutte a metà, ovvero fino alle 21,30. Perché, scattata quella nefasta ora, mia madre abbassava di tre tacche il volume e mi intimava con cinque lettere: “DORMI”. 
Ho imparato a dormire con il faro di uno schermo televisivo puntato contro, le voci enfatiche dei doppiatori italiani che si accusavano l’un l’altra, una madre sorda ai bisogni della figlia di fronte a una soap opera. E, nonostante questo, ho imparato a crescere felice.
Più o meno.

Sempre che non si parli di telenovele. E di personaggi cattivi delle soap.
Sheila per esempio: chi mai potrà dimenticarsi di quella pazza scatenata che, nel pieno delirio d’onnipotenza, rapisce le figliolette di Taylor e Ridge e minaccia di ucciderle? Chi potrà rimuovere dalla mia memoria lo stupro di Giulia Poggi?

Insomma, non giudicatemi se c’ho messo un po’ a riprendermi dalla morte di Stephanie. 
Sono colpi grossi.  







lunedì 14 ottobre 2013

Sono mesi che parlo di figli e sono mesi che non aggiorno il blog. 
No, non c’è da preoccuparsi, i due aspetti non sono minimamente collegati.
Certo, è evidente che sia in piena età fertile, in piena tempesta ormonale che manco lo tsunami, in piena vita da quasi-trentenne-quasi-normale. Una sorta di giovane donna che non ha un equilibrio, non ha un lavoro - ebbene sì, passano i mesi e cadono le foglie, e io sono sempre qui a non fare nulla - e tantomeno una parvenza di compostezza. Sembro la potenziale eroina di una canzone di Vasco Brondi, ma cosa dico, di un libro di Franzen, ma cosa dico, di un film di Wes Anderson, ma cosa dico, della nuova stagione di Girls. 

Col cazzo.

Mi divido tra storie d’amore andate a male e curricula Europass da inviare con una serialità degna di un assassino. Tra risate e amici nuovi, cambi di armadio e cambi di pettinature, analisi del sangue e analisi della propria vita. 

È ottobre e questa è la stagione perfetta per fare i conti con se stessi. Per me il vero anno inizia adesso, in autunno, di ritorno dalle vacanze e con il cuore e gli occhi ancora proiettati verso la coda dell’estate. Quando non c’è altro da fare che un sospirone, riporre i costumi e tirar fuori i vestiti pesanti per ricominciare ad allenarsi. A correre per non sentire il freddo di una cattiva stagione sempre troppo uguale a se stessa. 

E poi. E poi le cose cambiano. Inizi a capire che l’inverno è un’occasione per lavorare su di sé, che la frenesia non è giusto averla solo da maggio ad agosto. Che il lavoro arriverà, prima o poi - mese più, mese meno, tanto sono anni che sono nel limbo della disoccupazione occupata - e che gli amori falliti sono niente più che lo specchio di bancarotte personali. Che ripartire da se stessi non è così male, basta avere intorno amici stupidi e insostituibili e dentro la sicurezza di potercela fare. Che continuare a pensare di poter scappare all’estero è una stronzata da diciottenni, e se non l’hai fatto allora, adesso è totalmente inutile. Che piangersi addosso è passato di moda insieme alla ciniglia. Che la cura per tanti piccoli drammi quotidiani è una sana risata a bocca aperta, e anche l’alcool certo. Sotto forma di White Russian al momento, insomma inizia a far freddo e il cetriolo lo relego all’estate (sarà bene specificare, intendo il cetriolo come decorazione per il Moscow Mule. Maniaci.)


Capisci anche che ci sono tante passioni che potrai far finta di ignorare e abbandonare per anni, ma torneranno sempre. Che sarà inutile dare la colpa alle scuole frequentate, alla città priva di stimoli, alla rovina dell’editoria, agli alieni, all’invasione di cavallette. Perché sai benissimo che il senso di fallimento per non scrivere più è tuo, e tuo soltanto. Non ci sono scuse che tengano. 
Poi arrivano certi amici nuovi. Così nuovi che ancora hanno il cartellino, che vedi come fantastici ma ancora devi capire dove collocarli. E sono proprio loro che ti consigliano di riprendere a scrivere, di non fare stronzate e di continuare. Con così tanta semplicità da farti vergognare per aver smesso.

Insomma, ottobre è a metà e il mio anno personale è appena iniziato. 
Niente figli, no. Prima c’è da capire come curare me stessa. Mi pare di avere appena imparato a camminare, e di strada ce n’è da farne parecchia. Fatemi trovare un po’ d’acqua, ogni tanto.


Oddio, anche un cocktailino non sarebbe male. Va bene smetto, d’altronde è solo lunedì.