mercoledì 18 dicembre 2013
Ci sono dei periodi specifici dell'anno
in cui temi di dover salutare la gente.
Ma non per maleducazione o per colpa di
un'improvvisa misantropia, no, qui il motivo è ben più semplice: si teme
forse più della peste la fatidica domanda “cosa fai a capodanno?”
Quesito che subito mi riporta alla
gioventù quando i parenti, durante certi interminabili pranzi
domenicali, esordivano con la famosa triade del male:
comevalascuola/dovevaiinvacanza/trovatoilfidanzato.
La reazione spontanea sarebbe stata
quella di alzarsi, rovesciare loro addosso la tavola imbandita
partendo dalla zuppiera con i tortellini e, serenamente, rimettersi a
sedere. Ma, non potendolo fare a causa di un'inutile convenzione
sociale, ero costretta a stiracchiare un sorriso e abbozzare una
risposta vaga e dispersiva. Una supercazzola, insomma.
Adesso però, che quelle domande sono
state abbandonate per la noia di sentirsi rispondere monosillabi, le persone non fanno altro che aspettare dicembre per chiederti
cosa farai il 31.
Ora, voglio dire. A nessuno interessa
mai cosa faccio la sera; perché mi chiedo, perché d'improvviso
l'intera umanità pare vogliosa di scoprire dove andrò l'ultimo
dell'anno?
Le risposte che puoi fornire, poi, sono
sempre le stesse, da almeno 15 anni.
“Mah, guarda, il 31 è una serata
come tante altre, preferisco non fare niente e andare a letto presto”
(Ovviamente sarà colui che, alle 8 del
mattino del 1, verrà ritrovato nudo svenuto nel proprio vomito in
qualche angolo di strada)
“Ho organizzato una festa in questo
locale, sarà bellissimo, ci sono anche i nostri vecchi compagni
delle elementari e pensa, a mezzanotte scatterà il trenino! Vieni?
L'ingresso costerà solo 80€ senza drink”
(Inutile dirlo, il locale in questione
chiuderà alle 23 per assenza di clientela)
“Sono mesi che ho già preparato
tutto, vado con il mio fidanzato all'estero proprio per fare il
capodanno in una grande capitale europea, non abbiamo nemmeno speso
molto, l'importante è prenotare in tempo”
(Salvo la cancellazione il giorno prima del volo, o l'ovvia separazione dalla dolce metà per tradimenti e amenità simili)
(Salvo la cancellazione il giorno prima del volo, o l'ovvia separazione dalla dolce metà per tradimenti e amenità simili)
“Voglio fare qualcosa di tranquillo,
pensavo a una cena a casa e poi dopo mezzanotte andare in qualche
locale a fare due salti”
(Chi metterà a disposizione la casa, è
chiaro, non riuscirà mai a uscire: a mezzanotte gli ospiti
scoppieranno petardi sotto il tavolo, qualcuno vomiterà dal balcone,
altri si tireranno le lenticchie e altri ancora bruceranno il pelo
del cane con le bacchettine che fanno le scintille)
“Vado in piazza con gli amici, poca
spesa molta resa, vuoi mettere?”
(Saranno l'unico gruppo di giovani in
mezzo a bambini col viso truccato da farfalla, genitori depressi
impegnati ad abbuffarsi di panettone e settantenni concentrati a
ballare il liscio)
“Ah, io lavorerò come cameriere,
sono soldi facili, pagano molto per poche ore”
(Le ultime parole famose: 50€ al nero per 12 ore ininterrotte di schiavismo sono forse un po' pochini)
(Le ultime parole famose: 50€ al nero per 12 ore ininterrotte di schiavismo sono forse un po' pochini)
“Bah, decido all'ultimo, tanto
qualcosa da fare si trova sempre”
(Traduzione: il 31 sera mi ritroverò
solo a casa, sotto le coperte a guardare Frizzi in tivù che festeggia con mummie riportate in vita)
Io?
Io non mi preoccupo: a capodanno, con
la sfiga che mi pervade, minimo minimo avrò la febbre.
mercoledì 20 novembre 2013
Poco fa mi è capitato di sentire parlare mio padre al telefono con un suo amico di vecchia data, mentre inveiva contro il cellulare ormai datato che gli ha fatto cadere la linea almeno un paio di volte, senza rendersi conto che in realtà stava schiacciando con la guancia il tasto rosso.
Fino a qui, niente di strano, normale amministrazione.
E l’ha detta seriamente.
Mai avrei immaginato che qualcuno, non appartenente al mondo delle soap-opera o dei serial sudamericani, potesse utilizzarla. E invece patapem! Il padre.
Il vocabolario, le terminologie, i modi di dire. Universi paralleli e incomprensibili.
“non te l’annaffio” = questa cosa te la dico in maniera concisa, senza troppi giri di parole
“siete due ciliegie” = siete due persone inseparabili
“ora ti ungo i denti” = ora ti faccio mangiare a forza. Altre volte la usa anche per costringere qualcuno a confidarsi
“bragiulina” = la braciola di maiale.
“iogusse” = lo yogurt. Che, per una donna con la terza elementare, era già troppo.
“amburga” = no, non c’è alcun retaggio tedesco. È semplicemente l’hamburger.
“cidrone” = il cetriolo. Gioiosamente coltivato nell’orto dietro casa.
“midolla” = la mollica del pane. Storpiata in maniera da sembrare un composto chimico.
Dove, insomma, ognuno parla a se stesso, perché il prossimo non riesce a capirlo.
È un po’ come dover imparare diverse lingue.
Morte.
Tante care cose a tutti, amici.
giovedì 14 novembre 2013
Lavorare per dieci giorni nel reparto abbigliamento del centro commerciale della propria ridente cittadina corrisponde, possiamo dire, ad assicurarsi un posto fisso in paradiso.
Visualizzate una ragazza che, da circa sei anni, non porta più i pantaloni - in special modo i jeans - per un vezzo e soprattutto per evitare il trauma di conoscere la propria taglia.
Visualizzate una ragazza che non porta più i pantaloni e che, per un ironico caso del destino, deve ordinare tute e piumini, scarpe sportive, maglioni e calzoni delle più svariate forme per offrirli alla mercé dei soci Coop. Una mosca bianca, un ago in un pagliaio, una sirena tra gli squali, una disagiata nel mondo del lavoro.
Visualizzate una ragazza che non porta più i pantaloni che deve occuparsi dell’abbigliamento sportivo per i soci Coop armata solo di buona volontà, un vestitino da venerdì sera e tanta, tanta inconsapevolezza.
O l’istinto di sopravvivenza, per essere precisi.
In entrambi i casi, i vestiti sembravano avessero scelto la strada dell’anarchia.
I jeans tentavano sempre di allontanarsi: così tanto che sono stati ritrovati anche vicino al reparto pasticceria.
Le maglie credo odiassero essere maglie, e più volte hanno tentato di diventare t-shirt arrotolandosi le maniche.
I piumini, nel caldo del reparto, svenivano a terra scomposti e mischiati.
Le scarpe, costrette a matrimoni combinati fin dalla nascita, preferivano scoppiarsi e unirsi dentro scatole di altre scarpe.
In poche parole: nammerda di delirio, un girone infernale, roba che in confronto camera mia è ordinata.
“Senti ma ce l’avete le magline della Liabella?”
“Questo giubbotto è abbastanza pesante? Lasciami il tuo numero, che se mi ci farà freddo ti chiamerò per lamentarmi”
“Non si abbassi troppo, le si intravedono le mutande”
Provate a indovinare quali siano stati miei clienti.
Però, in compenso, ho ricominciato a portare i jeans.
mercoledì 30 ottobre 2013
Io non lo so se sia un problema nato dopo capolavori come La finestra sul cortile (sì Hitchcock, parlo proprio con te, uomo che fai film della madonna e sforni una delle mie pellicole preferite - Vertigo, che domande - per poi lasciare sguarnito il cinema di registi degni), ma ecco, le dinamiche tra vicini di casa sono parecchio inquietanti.
Voglio tralasciare il padre cinquantenne che mi spia dal balcone quando lascio la finestra aperta: ho rimosso la sua faccia per evitare di avere incubi.
Ed è così da sempre, da quando ho memoria.
Dicevo. Ero in questo locale a fare beatamente del sano gossip serale sterile e cinico e TAC, mi si materializza accanto la mia vicina di casa. Tutta in tiro e col compagno a traino, seduta composta sullo sgabello accanto al mio.
C’è stata un’occhiata. Rapida e di traverso, per non esporci troppo da essere costrette a salutarci. Io la riconosco, lei riconosce me.
D’un tratto mi tornano in mente tutti i ventotto anni trascorsi a pochi metri di distanza. Le urla che sento tra lei e sua madre, con un livello di due-tre volte al giorno. Talvolta anche con qualche piatto tirato per alzare la media della drammaticità. I discorsi uditi inavvertitamente, i momenti d’intimità da bagno - non sto a scendere nei dettagli - e da camera da letto. Credo che i primi ansimi sessuali non li abbia ascoltati in un film porno, no, provenivano dalla stanza della mia vicina. Robe turche.
Poi, fuori, il nulla.
Io spio te, te spii me.
Ma quando siamo fuori, ecco, non ci si conosce.
Ho bevuto in fretta il mio white russian e sono uscita. Occhi bassi, disagio alto.
Rauss.
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About Me
Mi chiamo Martina. Sono oggettivamente piena di speranze. In cosa, non si sa. Poco in me stessa, molto nel futuro, troppo nel passato. Ho vissuto sei anni a Torino. Scuola Holden, poi giornalista per il quotidiano La Stampa. Attualmente sono tornata ad Arezzo, dopo sei mesi di densissima vita a Bologna. Ancora devo capire perché.
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