Total Pageviews

Powered by Blogger.

About Me

La mia foto
Mi chiamo Martina. Sono oggettivamente piena di speranze. In cosa, non si sa. Poco in me stessa, molto nel futuro, troppo nel passato. Ho vissuto sei anni a Torino. Scuola Holden, poi giornalista per il quotidiano La Stampa. Attualmente sono tornata ad Arezzo, dopo sei mesi di densissima vita a Bologna. Ancora devo capire perché.

Disclaimer

  • Le foto su questo blog sono state recuperate da Pinterest e dal web. Nel caso conosceste i nomi dei fotografi, ditemelo. Sarà cosa gradita. Chiaramente i testi sono miei. Chi oserà rubarli / plagiarli / copiarli avrà l'immediata caduta delle dita delle mani, dei piedi, dei capelli e anche un po' di malocchio. Giusto per avvertire.

Contact

Nome

Email *

Messaggio *

venerdì 29 giugno 2012





Nel mentre che la mia pancia sta totalmente spellandosi e io tento di sopperire spalmandovi crema inutile (alle soglie dei trent’anni non è male non saper ancora prendere il sole, sembro un serpente viscido e scivoloso), riflettevo sui primi baci.

È ormai evidente che questo mio blog sia più per gli adolescenti che per i giovani uomini e le giovani donne attanagliati da crisi e peli superflui.
Ma tornate qui, non cancellatelo dai preferiti, continuate invece a diffonderlo nell’aere come una simpatica distrazione.

Perché i baci a cui faccio riferimento non sono quelli di quando avevamo 13, 14 anni. Ed eravamo a scoprire i primi sapori, a riconoscere le salive altrui come qualcosa di estraneo. Al mare, di notte, con la sabbia che entrava tra i capelli e i granelli a mischiarsi con la lingua.
Non quelli. Ma quelli di oggi.

Se ci pensate, è ben peggio.
Allora c’era la voglia di sperimentare, la curiosità di capire.
Oggi c’è ansia da prestazione e indecisione su come potrà andare dopo.

Una cara persona ha detto, una volta, che “non è mai il momento giusto per un primo bacio”.
Io credo che il problema sia tutto quello che ne consegue.

“Se ci baciamo adesso finiamo a letto, è inevitabile, no non è il caso, ho le mutande di Hello Kitty”
“Ho l’alito che sa di birra e sigarette, non ho neppure un chewing-gum, se lo bacio lo faccio svenire”
“E se poi bacia male? E se sbava?”
“Dove? Mi appoggio al muro? Guardo un punto a caso davanti a me? Lo fisso fino al momento in cui prende coraggio? Vado io?”

Non c’è mica da sottovalutare l’attimo prima del primo bacio. O del suo tentativo. 
L’ansia taglia le gambe, gli ormoni volano bassi (l’altezza è quella inguinale). Non si riesce a guardarsi negli occhi, ancor meno a non far sudare le mani. 
Si torna all’adolescenza, non c’è dubbio. Mancherebbero solo gli apparecchi per i denti. 
Però dopo, mentre finalmente ci si bacia, viene da ridere. Come se ci si fosse del tutto scoperti: si possono confessare le cose peggiori, i pensieri più assurdi, tanto ormai il grosso è stato fatto. Niente c’è di più intimo d’un bacio.

Poi c’è un momento di pausa. Una bolla di sapone che si rompe. La realtà che torna a insinuarsi, il saturo delle emozioni svanisce. E rimane solo la preoccupazione lieve per quello che sarà dopo, per quello che potrà nascere oppure no. L’attesa dell’indeterminato.

E poi. E poi ci sono le storie intrecciate, quelle dove non c’è niente di chiaro, quelle che partono per caso e continuano ancora più per caso. Magari nel mentre incontri altre persone, ne recuperi altre dal calderone del passato, ne confronti i termini e tenti di tirare le somme. Non riuscendoci. 

Io a matematica avevo 4 fisso, non è che sappia fare i conti con le questioni d’amore. Proprio no, non ci sperate neppure, al limite so farvi un paio di sottrazioni di dignità.

È buffo. I primi baci sono brutti. Non c’è sincronia, non c’è un grande trasporto. Solo una gran voglia di sciogliere quei nodi e quelle distanze accumulate nel tempo.
Il nodo è allo stomaco, ovviamente. E le distanze ormai nulle. 

Almeno per il momento.







mercoledì 27 giugno 2012





Decidere di farlo è stata la decisione più difficile della mia vita.
Dico iniziare il romanzo. Che avete capito, per il resto arrivate tardi...

Oddio, non che abbia proprio iniziato. Insomma, c’è la volontà. Un’intenzione sospinta dal non fare un cazzo ogni giorno, dall’essere in un periodo di totale e completo cambiamento, senza escludere il pepe al culo di tutte quelle persone che ho intorno qua a Bologna, come se fossimo tutti orfani erranti ritrovati qui per volontà più che per caso. Sante affinità elettive.

Comunque. Gli amici non c’entrano niente.
Oddio, in realtà c’entrano tutto. Pure troppo a tratti, dato che io non faccio altro che ascoltare i consigli di chiunque.

“devi scrivere la tua, di vita, hai avuto così tante sfighe che la gente potrà solo riderne”
“scrivi in maniera semplice, quando ti si legge non si capisce un cazzo”
“te i romanzi mica li sai scrivere, continua col blog, diventa la nuova Guia”
“buttati sul pornosoft”
“ma le poesie non ti piacciono? Manca una nuova giovane poetessa melodrammatica in Italia”
“dalla a qualcuno e fatti scrivere un romanzo a tuo nome”

Ecco. Potete ben capire che, in quanto a confusione, ce ne sia a sufficienza.
Non è che parta avvantaggiata, diciamo. 
Anche se poi, di idee, in fondo e in fine ne ho un sacco. Però appunto, sono idee. 
Ovvero, quel-qualcosa-di-astratto-che-non-riuscirò-mai-a-concretizzare. 
Sono una stronza, sul serio. E con me stessa. Proprio non riesco a farmi da una parte e organizzarmi. Vivo in un universo parallelo, a cinque metri da terra (ho detto cinque metri da terra, non tre metri sopra il cielo, mi raccomando), dove è tutto sempre bellissimo o terribilmente drammatico. Le vie di mezzo non so cosa siano, così come il venire a patti con la realtà. Realtà? What’s realtà? Uff.

Però sono giunta a un compromesso. Con la mia pigrizia soprattutto.
Scriverò di tutti voi. Sì, è una minaccia.
Nel senso, di me in relazione a voi. Sarete i protagonisti indiretti del mio (eventuale) accumulo di parole, definirlo romanzo mi pare un po’ azzardato.
Ok, cambierò i nomi e qualche dettaglio, certo, però saprete riconoscervi perfettamente. Altro che Dan di Gossip Girl (ok, ho visto tutte le stagioni, va bene? Sono dipendente dai vestiti di quelle donne, dal loro sculettare languido, e ancor più dalla totale assenza di talento che hanno i protagonisti, pur facendo i lavori più fighi della storia, mannaggia a loro), sarò io la vera voce della mia generazione (per lo meno di quella frangia di fallimentari sognatori senza futuro alcuno). 
Scusate, adesso torno nei ranghi. Mi ha fatto male vedere tutta la prima serie di Girls in 5 ore, di filato, senza quasi andare a fare la pipì. Chiamatemi Hannah.

Dicevo, scriverò in effetti della mia vita, di tutte quelle folli situazioni ai limiti del paradossale che mi sono capitate negli ultimi cinque-sei anni. Dal “ti amo ma non è vero” al “scusa, la mia ex è incinta, torno da lei”. Ovviamente ci metterò anche lui, Satana, Daredevil, insomma il cieco di merda ©. Si merita il posto di mostro finale, lui. 

Comunque. 
Inutile specificare che non abbia la minima idea di come strutturarlo, un romanzo. Non so da dove partire, come svilupparlo, e soprattutto come terminarlo. Serve un ordine, un progetto, una scaletta. La capacità di saper decidere.
Ma si sa, di chiaro nella mia vita c’è ben poco. 

Magari sarà la volta buona che riuscirò a dare un ordine alla confusione emozionale che c’è dentro.
Facciamo finta di crederci, và.




domenica 24 giugno 2012






"Quella di cui godevo in quei giorni afosi, camminando sui larghi marciapiedi di viale Manzoni e di via Merulana al riparo dal fogliame dei platani, era indubbiamente una felicità partorita da un'illusione: l'illusione di un piccolo numero di strade e incroci capace di suggerirmi la sensazione, razionalmente insana, che esistesse per me, come per chiunque altro, un luogo capace di farmi sentire a casa, qualunque disastro fosse in corso o mi pendesse sulla testa."
"Quella di cui godevo in quei giorni afosi, camminando sui larghi marciapiedi di viale Manzoni e di via Merulana al riparo dal fogliame dei platani, era indubbiamente una felicità partorita da un'illusione: l'illusione di un piccolo numero di strade e incroci capace di suggerirmi la sensazione, razionalmente insana, che esistesse per me, come per chiunque altro, un luogo capace di farmi sentire a casa, qualunque disastro fosse in corso o mi pendesse sulla testa."
"Quella di cui godevo in quei giorni afosi, camminando sui larghi marciapiedi di viale Manzoni e di via Merulana al riparo dal fogliame dei platani, era indubbiamente una felicità partorita da un'illusione: l'illusione di un piccolo numero di strade e incroci capace di suggerirmi la sensazione, razionalmente insana, che esistesse per me, come per chiunque altro, un luogo capace di farmi sentire a casa, qualunque disastro fosse in corso o mi pendesse sulla testa."

Emanuele Trevi




Tornarsene a casa dei propri genitori.
Anche solo per un paio di giorni, badate bene. Ma, in certi casi, il tempo sa essere davvero relativo. E stronzo.

Pare ti prenda in giro. Si allunga e accorcia all'inverso, proprio quando non vorresti. Una dilatazione da partoriente.
Per dire. Io sono ventiquattr'ore che sono tornata nel'infernale regno aretino. Minuto più, minuto meno.
E non è successo niente. 

Il caldo secca i pensieri, certo, oltre che i capelli e i campi farinosi. Ti tiene in ostaggio in casa, con le finestre abbassate, solo regolari spilli di luce dalla serranda a penetrare il buio. 
C'è un silenzio, poi, che è diverso. Più denso, che attutisce i suoni. Che mantiene il distacco tra ciò che è fuori. E ciò che è dentro.

Si sta distesi sul letto spoglio, a guardare gli oggetti e le ombre della tua infanzia sotto una luce diversa. A scrutare i muscoli delle gambe che si contraggono nello sforzo di trovare centimetri di fresco. A leggere risposte a domande appena accennate negli angoli del soffitto, blandi tentativi di sistemazione.

Ecco, è in questo contesto che il tempo non passa mai.

 Le quattro, pesanti come un colpo (cit.)

Che ci si focalizza su pensieri ossessivi, su piccoli fallimenti che diventano infiniti e immobili. E si somiglia a una mosca che sbatte contro il vetro, in un affannarsi nel tentare vie di fuga senza che ci sia un vero e proprio pericolo. 

Essere lasciati in balìa di se stessi può comportare effetti collaterali. 
Almeno nel mio caso.
Sono qui, in un'enorme casa vuota, che rimbomba e seda la socialità. Con un giardino da strappare, tagliare, ordinare. Un orto da bagnare. Un armadio da rimettere a posto.
Però preferisco pensare all'altrove. A strizzarmi il cervello con domande improbabili, le uniche che in questo momento riesca a farmi. Ad avere l'impressione che faccia sempre tutto da sola, che la mia vera specialità sia trovare scuse e dare risposte a quesiti inventati.

Cadere in depressione per conoscenti o quasi divenuti anime elette.
Crucciarsi su sorrisi non fatti, gesti evitati, parole di troppo.
Sentirsi in eccesso per scelte avventate, messaggi incauti, desideri precipitosi. 
Non capire dove sia la verità. O un suo abbozzo.

Non c'è verso. Le ore non trascorrono limpide, in questo bunker silenzioso.
No, non sto parlando della casa, parlo del cuore.




"Nella mia testa
c’è sempre stata una stanza vuota per te
quante volte ci ho portato dei fiori
quante volte l’ho difesa dai mostri

Adesso ci abito io
e i mostri sono entrati con me"
Michele Mari




sabato 23 giugno 2012





Arriva sempre, e non sai mica come.
Dico il momento in cui, qualsiasi cosa tu stia facendo, ti scatta qualcosa e poi non vedi più niente come un istante prima.

Cioè, sicuramente non è un'epifania, e neppure un'indicazione divina. è giusto il tuo cervello che si dice - tu ne sei all'oscuro, ovvio, le scelte migliori mica le fai con coscienza, la tua testa e il tuo cuore si riservano il diritto di gestirti come più amano, insomma alla fine sei solo un burattino nelle loro mani, e ringrazia che sia così - che è arrivato il tempo.

Di prendere consapevolezza, di fare il punto della situazione. Della vita, insomma. Però non con angoscia, sia chiaro. Ma con voglia di rivalsa. Di movimento, di frenesia. Perché di tempo ne è stato sprecato fin troppo.

Sarà stato cambiare l'ennesima città. Sarà stato il trovare persone nuove che mi hanno versato nelle vene voglia di vivere in maniera così semplice che, in confronto, passarsi il sale a tavola è un'impresa. Saranno stati i mille ostacoli di questi ultimi tempi, la grinta da dover tirar fuori, i picchi e gli abissi, le serate sprecate e quelle vissute fino all'ultimo sorso. Di birra e di gioia.
Ma riconoscersi, dopo anni, è davvero episodio degno di nota. 

Non che abbia risolto niente, questo è chiaro. Perditempo e procrastinatrice lo sono nata, e temo morirò tale.

Però, in determinati momenti a casaccio nella vita - costellazioni sconosciute, è un po' come guardare il cielo da un'altra prospettiva, cambia tutto, l'unica reazione possibile è la meraviglia e la riconoscenza - capita che non debba servire altro. Se non la semplicità di esserci, sentirsi, e un'immensa gratitudine nei confronti dell'universo. 

C'è chi sceglie la religione. Io credo di aver scelto la fiducia.

Di girarsi, in una notte fragrante di afa e asfalto caldo, e vedere che tutto è al suo posto. In un'entropia indispensabile. Su una bici dalla catena rumorosa, a piedi a testa bassa o fermo a un semaforo arancione. Tutto è lì. Basta saperlo vedere.

Ho iniziato a farlo. E non c'è da fermarsi, se non per legarsi una scarpa ogni tanto.




mercoledì 20 giugno 2012





Che poi, voglio dire.
Avere infinite ore davanti a sé di nulla più totale causa l’assenza di lavoro e un caldo micidiale (la rima non era voluta. chiedo perdono) che farebbe morire una pianta grassa porta a fare un paio di riflessioni.

Vi illustro la situazione.
Sono seduta su un divano di pelle. Seduta è un eufemismo, dato che sono scivolata così in basso (e in tutti i sensi) che immagino non si riesca a distinguere le mie braccia dai braccioli del divano. 
Comunque. Ho, nell’ordine:
  • alla mia sinistra un ventilatore. Fisso. Velocità 3. Indirizzato sulla mia faccia. Da almeno 4 ore.
  • alla mia destra un bicchiere d’acqua ghiacciata. Leggermente frizzante. Giusto leggermente, poi sennò gonfia.  
  • di fronte a me il computer, sulle ginocchia (ma và?). Un po’ più in là l’ennesima lavatrice stesa. Questa però non è la mia, è della coinquilina infermiera (che coup de théatre...)
  • intorno a me, tanto caldo. Troppo. Nemmeno avere le finestre totalmente chiuse e andare per casa a tentoni, sbattendo dappertutto (maledetto cieco, ancora ce l’ho con te, sì, non mi dimentico che ancora devi pagarmi molto di più di quello che mi hai dato), serve a qualcosa.
  • dentro di me, nel cervello, tra i buchi di ricordi e le voragini di speranze, la voglia di fare qualcosa che però continua a rimanere lì, a non concretizzarsi. Castrarsi da soli, il mio nuovo sport preferito.

Ok, avete presente la scenografia?
Bene, adesso pensate al dramma. Il cuore del plot, il fulcro della storia. Al di là dell’insicurezza totale sul futuro, sulla città in cui riuscirò a vivere, sul lavoro (ah, che dolce parola, che meravigliosa e vana illusione, che idillica attività) che farò, il problema è un altro.

L’attesa.
Manco fossi incinta.

Devo aspettare che mi richiamino da quel posto di lavoro.
Devo attendere la risposta per email da quell’altro posto di lavoro.
Devo sperare che da qui a qualche giorno cambi qualcosa.

Insomma, c’è solo da rimettersi nelle mani degli altri.
Sinceramente, è una cosa che non sopporto.
Già nelle mie (dis)avventure sentimentali, bisogna sempre tenerlo presente, ho la costante che tutti mi mollano per tornarsene dalla ex. O qualcosa di simile. 
Insomma, fanno sempre in modo che io non abbia possibilità di scelta, di movimento, di dimostrazione che forse potrebbe funzionare. No, non sia mai, troppo semplice, col cazzo che facciamo in modo di poterci innamorare di te, sei la seconda scelta, ricordatelo sempre (scusate. Mi stavo immaginando gli ex, tutti insieme, camminare verso di me come uno squadrone della morte mentre dicono tutti la stessa frase: “seconda scelta”. Stanotte avrò gli incubi, lo so). 
Dicevo, già c’ho da gestire l’impossibilità di gestire i sentimenti, ora devo anche gestire l’attesa di un lavoro, l’attesa di una risposta, l’attesa di svegliarmi da un letargo che dura da anni.
E, non da meno, l’attesa di scoprire cosa succederà nella mia vita. 





Però concedetemi una domanda spassionata.


Un amore così mi dite un po’ dove si trova? Si compra? Si ordina su internet?

Sempre ad attendere, eh.


domenica 17 giugno 2012





Caldo significa giugno.
Giugno significa matrimoni.
Matrimoni significa bouquet.
Bouquet significa una schiera di pazze isteriche che fanno finta di niente ma che si ucciderebbero pur di prenderlo al volo.

“Oddio no, figuriamoci, io sto in ultima fila, mica lo voglio”
“Non ho bisogno del mazzolino per sapere che presto il mio tesoruccio mi sposerà”
“È solo un gioco, non m’interessa se non sarò io quella a ricevere il bouquet”

E intanto calibrano, studiano, osservano, valutano la possibile gittata dei fiori. Finte si guardano tra loro, tra risatine stridule e tacchi dodici frementi. 
C’è chi sta ferma in un angolo. 
Chi in prima fila, sperando in un lancio debole. 
Chi quasi in fondo, andando avanti e indietro per parlare con le altre pretendenti.

Mi sono sentita Bukowski.
No, non scherzo. Chiaramente vestita meglio, profumata e meno unta di lui; però con la stessa misoginia intrinseca e nemmeno troppo nascosta. C’è da vergognarsi di appartenere alla loro stessa categoria quando si vedono dieci, quindici donzelle tendenzialmente intelligenti e belle incarognirsi come belve per afferrare al volo un po’ di fiori. Con la convinzione di potersi così sposare entro l’anno.

Il buffo è che quelle ragazze sono le stesse che, fino al giorno prima, inveivano contro il matrimonio. Costa troppo! C’è crisi! Non serve sposarsi per essere felici! Viva la convivenza! Che antiquati quelli che si sposano!
E poi schiumano come cani rabbiosi all’idea di perdere il lancio del bouquet.

Badate bene. Io non ho mai negato di volermi sposare. Anzi.
Lasciando perdere il periodo 14-21 anni, ovviamente. Lì ogni cosa che non fosse nera, triste, deprimente, con la parola SOFFERENZA o PATIMENTO impressa sopra non la volevo. Gli anni dark, che meraviglia. Non che ora sia cambiato molto, almeno dal punto di vista dei sentimenti masochistici. Però ecco, facciamo finta di sì.

Mi voglio sposare, fare figli, farmi una casa e tutte quelle belle cose là. Ho una cartella sul computer che è piena zeppa di foto di lustrini, veli, bomboniere, allestimenti di tavoli, fiori, strascichi, bandierine, addobbi e anelli. Una patologica wedding planner in erba. 
Però senza materia prima non è che si possa fare molto. Potrei sposare me stessa, ma già convivo con la mia essenza da 27 anni, direi che va bene così.
Si attende il principe azzurro, insomma. O qualcosa che lontanamente gli somigli. Lontanamente, eh.
Quindi il bouquet lo lascio alle altre. 
È ben più divertente osservare il tutto da fuori.

Io sotto al gazebo, bevendo bicchierini di prosecco che sembrano innocui, ma al quinto iniziano a rallentare la lingua e i movimenti.
Il lancio l’ho visto quando il bouquet è atterrato. 
A trenta centimetri da me. 
È stato lì, congelato e solo, per dei secondi lunghissimi. Il tempo pareva essersi fermato. Era bello, bianco, puro, docile. Apparentemente.
Poi si è scatenato l’inferno. Imbarazzi e illazioni. Scelte di parte e vociare nevrotico.
Disquisizione su chi l'avesse toccato. 

“Guarda che ha beccato me sulla spalla prima di finire a terra”
“In realtà io l’ho sfiorato per ultima”
“Lo deve prendere quella più vicina a dove è caduto”

Alla fine la più furba s’è avvicinata e, semplicemente, l’ha raccolto. Tra le silenziose ingiurie e gli auguri di morte da parte delle altre pretendenti. 

Io, nel mentre, sono andata a riempirmi di nuovo il bicchiere.
Le uniche cose che ho preso sono state due: il tappo dello spumante addosso e una sbronza colossale.

Prosit!



mercoledì 13 giugno 2012





Quando inizio a dire che ho sbagliato epoca in cui vivere, la gente alza gli occhi al cielo. 
Per carità, in qualsiasi tempo fossi nata avrei sempre avuto da rompere e lamentarmi, però magari un paio di turbe psicotiche me le sarei risparmiate.

Lo so. Ho un rapporto con la tecnologia che spesso è morboso e a tratti impuri. Toglietemi il telefono con collegamento a internet e sarà come togliere il bastone a un cieco (prima o poi il trauma per questa categoria di disabili mi passerà. Non adesso, però, al momento continuo a odiarli).

Ma se fossi vissuta, per dire, a fine Ottocento, non avrei avuto l'angoscia di dover rispondere al cellulare a numeri sconosciuti.

No, me ne rendo conto.
Voler fare, tra le altre cose, la giornalista barra l’addetta stampa barra l’editor comporta di stare a bagno nella comunicazione. Di avere il telefono come estensione dell’arto. Di basare la propria giornata sul contatto con la gente, e non tentare di rifuggire qualsiasi esperienza diretta con sconosciuti.
Io, quando devo telefonare anche solo per prenotare una pizza, entro nel panico. Mi vergogno. La voce mi diventa strana, inizio a impostarmi, a recitare mentalmente una parte di cui non ricordo le battute. Mi impappino, la metà delle volte riattacco il telefono e faccio finta di niente. Non cenando, o cambiando direttamente menu.
Al lavoro poi (cioè, quando ancora avevo un lavoro, me misera me tapina), quando oltre al dialogo c’è anche da curare la parte che prevede il prendere appunti, ecco, lì vorrei essere altrove. Proprio dall’altra parte del mondo, eh. Entro così nel pallone che spesso scrivo quello che dovrei dire invece di ascoltare la risposta dell’interlocutore. Un genio assoluto.
Inizio a capire il motivo per cui sono stata licenziata.

Uhm. 
Vi devo confessare che, quando la gente suona a casa, tiro fuori il peggio di me.
Se non aspetto nessuno, io non apro la porta.
Sì sì, faccio proprio come i vecchi. Evito di rispondere al citofono, faccio finta che in casa non ci sia nessuno, mi butto sotto il letto, mi distendo per terra facendo finta di essere morta, mi nascondo dentro l’armadio. Non ho dignità. Piuttosto che trovarmi di fronte uno sconosciuto dotato di parola e desideri comunicativi, ecco, preferisco stare nella vasca da bagno. Senz’acqua. Facendo movimenti autistici. Per almeno mezz’ora.

Nell’Ottocento non ci sarebbero stati tutti questi problemi.
Voglio dire, allora non esisteva questo gran numero di telefoni. Io, in quanto grafomane specializzata, sarei stata felice come pochi. La gente si scriveva. Mandava telegrammi, lettere, piccioni viaggiatori, segnali di fumo, messaggi in codice nascosti nelle cartoline illustrate. Ma non telefonava. E tantomeno si presentava a casa di qualcuno senza preavviso, anche solo per controllare il gas o la caldaia. Non c’erano di questi problemi.

Siamo d’accordo, c’era di peggio. Tipo il colera o la sifilide. E la mia convinzione che io, di sifilide, ci sarei morta sicuro. 
Però, almeno, c’era una certa dose di inconsapevolezza. Di fatalità, di mistero. Di “che cazzo vuoi che ne sappia adesso? Se son rose fioriranno” e amenità simili.

Mica come oggi. 
Con facebook e i social network in genere, sono più informata della CIA. Indago sulle cose che m’interessano (sulle persone, ok, lo ammetto, non iniziate a puntare il dito, siete come me) e non c’è proprio il rischio di sbagliare. 
Di fare tutto da soli, quello sì. 
Decidendo a tavolino, tra il mangiarsi le unghie e fumare sigarette, di cancellare per sempre dalla propria vita quella persona. O di eleggere quell’altra a unico e imperituro amore. (Fino a quello successivo, s’intende)
Un branco di compulsivi. 

Ora scusate, devo aggiornare il blog, scrivere una mail a un giornalista, controllare LinkedIn e rispondere a un paio di commenti su facebook.

Però non telefono.







Trovo sia stupefacente la capacità che ho di perdere tempo.
Per dire.
Più di un’ora fa mi sono detta “oh, basta, adesso ricomincio a scrivere. Due cagate eh, giusto per riprendere l’allenamento, per rimanere in forma, avere il fisico perfetto per l’estate" (uhm, in effetti. Dimagrire e scrivere sono due preoccupazioni costanti, negli ultimi giorni. I campi semantici s’intrecciano).

Poi, nel mezzo, ho:

  • pulito il bagno per la terza volta in questa settimana
  • messo in ordine l’armadio
  • sistemato le scarpe in ordine cromatico
  • fatto foto da hipster come una quindicenne, pure un po' da troia
  • parlato/litigato/bestemmiato con mia madre al telefono
  • usato le lenzuola come mantello dell’invisibilità dietro cui nascondermi per proteggermi dall’orrore del mondo, ma si vede che non ha funzionato dato che continuo ad essere appesantita dallo stesso carico di merda
  • aggiunto compulsivamente foto su pinterest, cliccando col mouse alla velocità della luce (tunnel carpale addio)
  • compreso quanto tutto sia abbastanza inutile, dunque forse scrivere qualcosa potrebbe essere l’unico modo per sfogarmi ed evitare di fumare quarantasei sigarette in mezz’ora.

Ognuno ha le proprie peculiarità. Le proprie carte vincenti, un campo in cui eccellere.
Ecco. Io so perdere benissimo il tempo.

(È passata un’altra mezz’ora, ho fatto il caffè, l’ho corretto col latte, ho fumato una sigaretta e, visto che c’ero, ho pure caricato la lavastoviglie. Che donna attiva.)

Pensatela come volete, ma è un’arte. Il procrastinare è mestiere mica da tutti.
Certo, nel mentre perdi buona parte della tua vita a non fare un cazzo, ma vuoi mettere la soddisfazione?
Che poi è buffo seguire il percorso. Guardate con me, proprio da lì, dall’inizio.
Io parto gasatissima. Entusiasmo a palla, so che ho le capacità per fare tutto quello che ho in mente. E forse anche meglio di come immagini. In testa è tutto molto chiaro, sempre, i passi da compiere, le riverenze, i volteggi, tutto.
Faccio per passare alla pratica. Qui si rompe qualcosa. È come se il corpo non rispondesse ai comandi. Come se fosse guasta la comunicazione tra pensiero e azione. Una totale disadattata.

Qualcuno, una volta, mi disse che sono un condominio di personalità.
Perfetto, si vede che la maggior parte degli inquilini è una barca di stronzi. Gente che, durante le riunioni, non aspetta altro per attaccar briga.
Tipo la vecchiarda del quinto piano, che insiste a dire di essere vedova, anche se tutti sanno che suo marito è scappato con la ex (una storia vera: le mie ultime relazioni hanno questo plot. Giuro). O il giovine scapolo del primo piano, sempre a fare il grosso, ma che in fondo fa lavori ridicoli solo perché è terrorizzato dal mettersi in gioco. Per non parlare della portinaia: la donna che dovrebbe curare e gestire il palazzo, rendere quieti i rapporti tra il vicinato, ma che invece non fa altro che impicciarsi dei fatti di chiunque. Un modo come un altro per evitare di pensare alla pochezza della propria vita.

Io ho questo condominio, dentro. Ora spiegatemi come posso fare a insegnare a ciascuno di loro la collaborazione per evitare il baratro.
No, spiegatemelo. E visto che ci siete, trovate al giovine un lavoro. E pure a me.

Va bene. Devo smetterla di giocare a The Sims.








Diciamola tutta. 
Spesso e volentieri si tenta di fare qualsiasi cosa per smuoversi, per migliorarsi, per progredire, ma indiscutibilmente si rimane immobili. 
Mosche contro la luce al neon. Capocciate al muro.
Nel senso.

Io ho cambiato tre città. Svariate case. Numerosi lavori (?). Innominabili fidanzati. Parecchi tagli di capelli. Tanti sorrisi con tante lacrime. Il tutto nella convinzione di avvicinarmi sempre di più a un ordine di vita. Una linearità d’intenti, un amalgama di desideri e realtà, un insieme pastoso ed armonioso.

Col cazzo.


No, ma che poi ho appena acceso la televisione. BeautifulKinderDeliceCentovetrineZanzareMariadeFilippiWindParodi. 
M’è venuto il dubbio di essere già all’inferno. 
Però, poi, anche questo mi serve per capire che tutto quello che ho sempre pensato voluto immaginato sognato illuso (illuso, sì, la riflessività è un concetto opinabile) è altro. 

Mi ritrovo a ventisette anni. Cresciuta con tutti quei film e quei libri che ti hanno convinto che, prima o poi, la casa e la famiglia del Mulino Bianco saranno le tue. Che avrai il lavoro figo e la persona giusta accanto. La perfetta forma fisica, il perfetto sorriso bianco da regalare come caramelle in giro. 
Cresciuta con la perfetta convinzione di essere formata. Di avere una certa cultura, una certa dignità. Una posizione, una forma mentis brillante e corretta. Di essere una persona stimabile. Amabile. Più del vino.
Ecco, qui c’è una falla. Non perché si debba amare il vino più di me (dipende dal vino, ecco almeno non paragonatemi a un rosso del Todis, andate su qualcosa di più particolare, un fugato siciliano, un fremente francese, insomma). 
Ma perché, calandomi nella gente, tra la gente ci si accorge sempre che tutto quello che si crede è davvero relativo.

Hai scoperto l’acqua calda, brava cogliona.
No, non ho scoperto l’acqua calda né cose che già non sapessi. Solo che sto andando a un altro livello di ragionamento. Stronzi. 

È che è sempre questione di fiducia. Di correttezza, di onestà. Di forza, se vogliamo.
La forza di mostrarsi. Di-mostrarsi. Senza pretendere di essere altro.
Discorso banalissimo e qualunquista, ma se ci pensate bene, ecco, ci si dimentica sempre. Affannati come siamo da far vedere agli altri di cosa si è capaci, si perde di vista il punto focale. 
Essere. Se stessi. 
Nel proprio delirio e nelle proprie mancanze. Nelle proprie lacune, in tutto quello che non si potrà proprio avere, e in tutto quello che ancora deve arrivare. Senza aver paura. Dato che la paura somiglia un po’ alla storia di Giovannino. 
http://www.webalice.it/claudio.conti8/favole14.htm


Oggi mi è difficile. Dico, essere poco retorica. Ma c’ho rimuginato tutta la notte e tutta la mattina, tra braccia incastrate male, mani addormentate, piedi avvinghiati almeno quanto i pensieri, curricula consegnati a casaccio, risposte ricevute altrettanto a casaccio. 

C’ho pensato, e ho capito che farsi venire il fiatone per correre dietro a chi non gliene frega un cazzo è utile come voler convincere un toscano a diventare vegetariano.
Badate bene: non sto dicendo di non insistere. Di mollare la presa, di rassegnarsi allo svolgersi degli eventi. Al contrario. Sto dicendo di smetterla di essere quello che gli altri vorrebbero che tu fossi.
Essere un po’ meno fichi. E più onesti.

Non si è ancora finito di studiare? Pazienza, hai fatto altro nel mentre. 
Non hai un cristo di lavoro degno, per quanto tu possa avere il potenziale? Continua a cercare.
Non hai ancora una casa tua, un uomo tuo, un progetto serio da perseguire, uno sguardo sicuro con cui osservare il mondo? Meglio, altrimenti sai che noia.

Facciamo finta che sia così. 

Nel mentre, continuo a demolire e costruire me stessa. 
Tentativi svariati, prima o poi s’imbroccherà quello giusto.
Il problema è che più per meno fa meno. La risultante è sempre negativa.
Matematica del cazzo.





martedì 12 giugno 2012





Il fatto che la fine del mondo sia il mio pensiero rincuorante del momento la dice lunga sull’inabile stato di depressione in cui verto.
Che poi, ammettiamolo: i Maya sono giusto una scusa per farci fare il bilancio delle nostre vite.

“Ragazzi, siete pronti? A breve la terra scomparirà! Avete fatto i bravi? Avete portato a compimento tutti i vostri progetti? Avete amato, odiato, scopato a sufficienza, riso, guadagnato tanti soldi, fatto vacanze da sogno e almeno un figlio? No? Bravi coglioni, non avrete più tempo.”

Ecco. I Maya sono così stronzi da metterci di fronte alle nostre debolezze.
Mi viene in mente la musica classica. Le incompiute. Tipo quella di Schubert. Le opere iniziate, promettentissime, e poi lasciate andare affanculo. Per la morte dell’artista o per la sua inedia (c’è, in fondo, così tanta differenza? Io credo di essere a metà, tra la morte cerebrale e quella fisica). Insomma, tutto quello che c’era di potenzialmente buono, che però non è stato sfruttato.

Potenziale. Che parola del cazzo. 

“Il ragazzo è bravo ma non si applica”
“Ha dell'ottimo potenziale, ma ancora le manca esperienza”
“Potenzialmente sei la donna della mia vita”
“Calcola il potenziale della seguente formula”
“Ti amo al 40%”

Ci siamo capiti.

Dicevo. I Maya. Il bilancio delle vite. Sarà che sono io la paranoica che ogni due minuti non faccio che pensare a quanto sia rimasta indietro, quanto ancora abbia da fare, quante strade percorse abbia lasciato non dico a metà, ma proprio all’inizio di un accenno di salita, quanto stia perdendo tempo. Eccetera. Ma questo mio essere schizoide mica porta a una reazione uguale e contraria (oggi ce l’ho con tutte quelle materie che al liceo non ho mai studiato, perfetto esempio di quanto sia stronza, vado sempre a pescare le cose impossibili, le falle di Matrix, il lato oscuro della forza, la mia pigrizia congenita che mi farà diventare un tutt’uno col divano); questo mio essere in affanno, al contrario, mi fa inchiodare ancora di più. Mi dico che ormai ho perso così tanto tempo che non vale la pena tentare di correre a doppia velocità pur di tentare di recuperarne un po’. 

Brava cogliona, direte voi.
In effetti, dirò io.

Però negli ultimi giorni sto migliorando.
Sarà il lavoro perso, l’università che incombe come spada di Damocle sulla mia testa (ecco, i miti greci li ho sempre letti e studiati con enorme gioia e soddisfazione. Sicuramente per colpa di Pollon, se mai avrò dei figli avranno dei nomi imperiosi e dispotici, che so, Medea, Morgana, Ettore. Poveretti), sarà il rischio di poter tornare indietro e fallire nuovamente. Ma mi sto muovendo. Magari è solo un’impressione ed è proprio la terra sotto di me che si crepa (vengo a vivere a Bologna e ci sono terremoti terribili, forse è il caso di farsi due domande), ma la voglia di fare qualcosa è tornata. Almeno per il momento.

Pregate che duri.

E che i Maya non me la gufino ancora.
Devo ancora fare tutte quelle cose indispensabili per una vita degna: andare a vivere a Parigi, perdere la testa per un jazzista di New Orleans (sì, New Orleans, problemi?), scrivere un romanzo alla Fabio Volo, farsi un tatuaggio da ubriaca, mangiare le cavallette in Thailandia, amare perdutamente qualcuno. Ed essere ricambiata, oh.




domenica 10 giugno 2012





Credo che si chiami legge del contrappasso.

Quando, di fronte a vecchi amici che ti domandano aiuto per far entrare due sconosciuti nella redazione del giornale per cui scrivi banalità a tempo perso (perso è il tempo che impieghi nel convincere i capi che meriteresti l’assunzione, beninteso), ecco, quando davanti a simili richieste chiudi con un ghigno demiurgico la mail di supplica, lì scatta il contrappasso.

Dovrebbero fornire il foglio d’istruzioni, quando ci si affaccia nel mondo del lavoro. O nella vita in genere. 

“Regola uno: aiutare sempre chi ti chiede una mano. Anche a costo di lasciarti soffiare da sotto il naso il posto di lavoro. Non si può mai sapere.”

In fondo la Bibbia dice più verità del previsto. Ma quest’assioma non credo di volerlo accettare. Non adesso, almeno.

Dovrebbero fornire il foglio d’istruzioni, dicevo, perché senza si rischia di sbagliare tantissimo. In generale, e nel non aiutare il prossimo. Scatenando così una catena apocalittica in confronto alla quale Murphy è un principiante. 
Perché, nell’arco di una settimana, quella senza lavoro sono io. Così. A caso. 

“È che non sai fare la contabilità”
“Guardi che sono stata assunta per fare l’assistente di produzione di spettacoli,  mica per seguirle la ristrutturazione della casa al mare e le bollette che non paga”

No, ma poi dico. Non sarebbe certo dovuto essere il lavoro della vita. Solo un ponte, un modo per guadagnare dei soldi (uff), rendermi indipendente (blabla), cambiare città (sput), ricominciare a vivere (ahah). È stato così per duemesidue. Poi, baratro. 

Sono le sei di un pomeriggio qualsiasi. Metà settimana. Ho già cambiato le lenzuola, spazzato, steso una lavatrice. Ordinati la dispensa e il frigo, mi sono buttata sul letto poi sul divano poi sulla sedia poi sul letto. Contato i capelli bianchi che ho tra un ricciolo e l’altro, i chili in eccesso e promesso di mettermi a dieta.
Mangiato una carota bramando un Pimm’s Cocktail. Desiderando pure un po’ più di stabilità, un po’ di chiarezza. Un lavoro, certo. Ma anche un fidanzato, una casa mia, la voglia di scrivere un romanzo, un pomeriggio all’Ikea, un barattolo di Nutella e le patatine. Da mangiare alternati. 

Considerando che, a pensarci attentamente, questi miei desideri hanno in momenti diversi la stessa importanza, si può facilmente evincere che non abbia troppa chiarezza in testa. La tassonomia della mia vita ha un che di enigmatico.

O meglio. So cosa voglio, credo, momento per momento. È il disegno d’insieme che manca. E, cosa non da meno, il percorso per arrivare a ogni scopo. La mappa del tesoro, la cartina per il galeone di Willy l’Orbo. 

Quelle stracazzo d’istruzioni per l’uso.