"Quella di cui godevo in quei giorni afosi, camminando sui larghi marciapiedi di viale Manzoni e di via Merulana al riparo dal fogliame dei platani, era indubbiamente una felicità partorita da un'illusione: l'illusione di un piccolo numero di strade e incroci capace di suggerirmi la sensazione, razionalmente insana, che esistesse per me, come per chiunque altro, un luogo capace di farmi sentire a casa, qualunque disastro fosse in corso o mi pendesse sulla testa."
"Quella di cui godevo in quei giorni afosi, camminando sui larghi marciapiedi di viale Manzoni e di via Merulana al riparo dal fogliame dei platani, era indubbiamente una felicità partorita da un'illusione: l'illusione di un piccolo numero di strade e incroci capace di suggerirmi la sensazione, razionalmente insana, che esistesse per me, come per chiunque altro, un luogo capace di farmi sentire a casa, qualunque disastro fosse in corso o mi pendesse sulla testa."
"Quella di cui godevo in quei giorni afosi, camminando sui larghi marciapiedi di viale Manzoni e di via Merulana al riparo dal fogliame dei platani, era indubbiamente una felicità partorita da un'illusione: l'illusione di un piccolo numero di strade e incroci capace di suggerirmi la sensazione, razionalmente insana, che esistesse per me, come per chiunque altro, un luogo capace di farmi sentire a casa, qualunque disastro fosse in corso o mi pendesse sulla testa."
Emanuele Trevi
Tornarsene a casa dei propri genitori.
Anche solo per un paio di giorni, badate bene. Ma, in certi casi, il tempo sa essere davvero relativo. E stronzo.
Pare ti prenda in giro. Si allunga e accorcia all'inverso, proprio quando non vorresti. Una dilatazione da partoriente.
Per dire. Io sono ventiquattr'ore che sono tornata nel'infernale regno aretino. Minuto più, minuto meno.
E non è successo niente.
Il caldo secca i pensieri, certo, oltre che i capelli e i campi farinosi. Ti tiene in ostaggio in casa, con le finestre abbassate, solo regolari spilli di luce dalla serranda a penetrare il buio.
C'è un silenzio, poi, che è diverso. Più denso, che attutisce i suoni. Che mantiene il distacco tra ciò che è fuori. E ciò che è dentro.
Si sta distesi sul letto spoglio, a guardare gli oggetti e le ombre della tua infanzia sotto una luce diversa. A scrutare i muscoli delle gambe che si contraggono nello sforzo di trovare centimetri di fresco. A leggere risposte a domande appena accennate negli angoli del soffitto, blandi tentativi di sistemazione.
Ecco, è in questo contesto che il tempo non passa mai.
Le quattro, pesanti come un colpo (cit.)
Che ci si focalizza su pensieri ossessivi, su piccoli fallimenti che diventano infiniti e immobili. E si somiglia a una mosca che sbatte contro il vetro, in un affannarsi nel tentare vie di fuga senza che ci sia un vero e proprio pericolo.
Essere lasciati in balìa di se stessi può comportare effetti collaterali.
Almeno nel mio caso.
Sono qui, in un'enorme casa vuota, che rimbomba e seda la socialità. Con un giardino da strappare, tagliare, ordinare. Un orto da bagnare. Un armadio da rimettere a posto.
Però preferisco pensare all'altrove. A strizzarmi il cervello con domande improbabili, le uniche che in questo momento riesca a farmi. Ad avere l'impressione che faccia sempre tutto da sola, che la mia vera specialità sia trovare scuse e dare risposte a quesiti inventati.
Cadere in depressione per conoscenti o quasi divenuti anime elette.
Crucciarsi su sorrisi non fatti, gesti evitati, parole di troppo.
Sentirsi in eccesso per scelte avventate, messaggi incauti, desideri precipitosi.
Non capire dove sia la verità. O un suo abbozzo.
Non c'è verso. Le ore non trascorrono limpide, in questo bunker silenzioso.
No, non sto parlando della casa, parlo del cuore.
"Nella mia testa
c’è sempre stata una stanza vuota per te
quante volte ci ho portato dei fiori
quante volte l’ho difesa dai mostri
Adesso ci abito io
e i mostri sono entrati con me"
Michele Mari
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