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Mi chiamo Martina. Sono oggettivamente piena di speranze. In cosa, non si sa. Poco in me stessa, molto nel futuro, troppo nel passato. Ho vissuto sei anni a Torino. Scuola Holden, poi giornalista per il quotidiano La Stampa. Attualmente sono tornata ad Arezzo, dopo sei mesi di densissima vita a Bologna. Ancora devo capire perché.

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  • Le foto su questo blog sono state recuperate da Pinterest e dal web. Nel caso conosceste i nomi dei fotografi, ditemelo. Sarà cosa gradita. Chiaramente i testi sono miei. Chi oserà rubarli / plagiarli / copiarli avrà l'immediata caduta delle dita delle mani, dei piedi, dei capelli e anche un po' di malocchio. Giusto per avvertire.

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mercoledì 30 ottobre 2013




Io non lo so se sia un problema nato dopo capolavori come La finestra sul cortile (sì Hitchcock, parlo proprio con te, uomo che fai film della madonna e sforni una delle mie pellicole preferite - Vertigo, che domande - per poi lasciare sguarnito il cinema di registi degni), ma ecco, le dinamiche tra vicini di casa sono parecchio inquietanti.

Già qui avevo parlato brevemente di chi vive intorno a me. 

Voglio tralasciare il padre cinquantenne che mi spia dal balcone quando lascio la finestra aperta: ho rimosso la sua faccia per evitare di avere incubi.

Non abito in un condominio, ma ho case così tanto attaccate che posso aiutare i vicini a chiudersi le cerniere lampo dei vestiti. 
Ed è così da sempre, da quando ho memoria.

Allo stesso modo, da sempre quando ci si trova in giro, ovunque si sia, facciamo finta di essere perfetti sconosciuti.

L’altra sera, per dire. Ero nel mio locale di riferimento a bere il mio cocktail di riferimento. D’estate è il moscow mule, d’inverno il white russian. Ora che è una stagione a caso, diciamo che faccio dei mischioni che la metà basterebbero. Parentesi alcolica chiusa, lo giuro.
Dicevo. Ero in questo locale a fare beatamente del sano gossip serale sterile e cinico e TAC, mi si materializza accanto la mia vicina di casa. Tutta in tiro e col compagno a traino, seduta composta sullo sgabello accanto al mio.
C’è stata un’occhiata. Rapida e di traverso, per non esporci troppo da essere costrette a salutarci. Io la riconosco, lei riconosce me. 

D’un tratto mi tornano in mente tutti i ventotto anni trascorsi a pochi metri di distanza. Le urla che sento tra lei e sua madre, con un livello di due-tre volte al giorno. Talvolta anche con qualche piatto tirato per alzare la media della drammaticità. I discorsi uditi inavvertitamente, i momenti d’intimità da bagno - non sto a scendere nei dettagli - e da camera da letto. Credo che i primi ansimi sessuali non li abbia ascoltati in un film porno, no, provenivano dalla stanza della mia vicina. Robe turche.

Poi, fuori, il nulla.

Sicuramente anche lei mi ha vista nei peggiori modi. Come allieva di catechismo a otto anni (sic), come adolescente isterica a fumare di nascosto dalla finestra, come fuggitiva notturna col fidanzatino kapò dell’epoca (lunga storia), e ovviamente mezza nuda davanti all’armadio a fare prove su prove su cambi su cambi d’abito. 

Quindi ecco. Il quieto vivere e il mantenimento di una dignità si risolvono solo in un modo.
Io spio te, te spii me. 
Ma quando siamo fuori, ecco, non ci si conosce.

Ho bevuto in fretta il mio white russian e sono uscita. Occhi bassi, disagio alto.


Rauss.






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