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Mi chiamo Martina. Sono oggettivamente piena di speranze. In cosa, non si sa. Poco in me stessa, molto nel futuro, troppo nel passato. Ho vissuto sei anni a Torino. Scuola Holden, poi giornalista per il quotidiano La Stampa. Attualmente sono tornata ad Arezzo, dopo sei mesi di densissima vita a Bologna. Ancora devo capire perché.

Disclaimer

  • Le foto su questo blog sono state recuperate da Pinterest e dal web. Nel caso conosceste i nomi dei fotografi, ditemelo. Sarà cosa gradita. Chiaramente i testi sono miei. Chi oserà rubarli / plagiarli / copiarli avrà l'immediata caduta delle dita delle mani, dei piedi, dei capelli e anche un po' di malocchio. Giusto per avvertire.

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giovedì 14 novembre 2013




Lavorare per dieci giorni nel reparto abbigliamento del centro commerciale della propria ridente cittadina corrisponde, possiamo dire, ad assicurarsi un posto fisso in paradiso.

Visualizzate con me.
Visualizzate una ragazza che, da circa sei anni, non porta più i pantaloni - in special modo i jeans - per un vezzo e soprattutto per evitare il trauma di conoscere la propria taglia.
Visualizzate una ragazza che non porta più i pantaloni e che, per un ironico caso del destino, deve ordinare tute e piumini, scarpe sportive, maglioni e calzoni delle più svariate forme per offrirli alla mercé dei soci Coop. Una mosca bianca, un ago in un pagliaio, una sirena tra gli squali, una disagiata nel mondo del lavoro. 
Visualizzate una ragazza che non porta più i pantaloni che deve occuparsi dell’abbigliamento sportivo per i soci Coop armata solo di buona volontà, un vestitino da venerdì sera e tanta, tanta inconsapevolezza.

Questa ero io. Ignara delle orde di barbari che, ogni giorno, si sarebbero presentati presso quel reparto per rivoltare i jeans accuratamente piegati e disposti per taglia, aprire tutte le zip delle felpe, gettare a terra i piumini ultralight in vera piuma d’oca, fare palle di lana dei maglioni dallo scollo a barca e rubare scarpe da ginnastica lasciando in cambio le proprie, vecchie e puzzolenti.

È davanti a simili circostanze che comprendo la vita difficile di Cenerentola, l’orrore di Biancaneve quando doveva nascondersi dalla matrigna, l’ingiusta crudeltà della strega della Bella Addormentata. Ma, contemporaneamente, quanto il dolore e il patimento facciano crescere e, alla fine, far trionfare il bene.
O l’istinto di sopravvivenza, per essere precisi. 

I due momenti peggiori della giornata erano al mattino e al ritorno dalla pausa pranzo.
In entrambi i casi, i vestiti sembravano avessero scelto la strada dell’anarchia.
I jeans tentavano sempre di allontanarsi: così tanto che sono stati ritrovati anche vicino al reparto pasticceria. 
Le maglie credo odiassero essere maglie, e più volte hanno tentato di diventare t-shirt arrotolandosi le maniche.
I piumini, nel caldo del reparto, svenivano a terra scomposti e mischiati.
Le scarpe, costrette a matrimoni combinati fin dalla nascita, preferivano scoppiarsi e unirsi dentro scatole di altre scarpe. 
In poche parole: nammerda di delirio, un girone infernale, roba che in confronto camera mia è ordinata.

Ci sono tanti tipi di clienti, quelli che chiedono alle commesse l’aiuto per cercare una taglia o un consiglio, quelli che titubano e alla fine lasciano perdere e quelli che, fottendosene della civiltà e dell’educazione, rispondono male se cerchi di evitare che ti scombinino la pila di jeans amorevolmente ordinati, mettono tutto in mezzo e, non paghi, non comprano un cazzo.

“Mi scusi signorina, ma è più grande la L o la XL?”
“Senti ma ce l’avete le magline della Liabella?”
“Questo giubbotto è abbastanza pesante? Lasciami il tuo numero, che se mi ci farà freddo ti chiamerò per lamentarmi”
“Non si abbassi troppo, le si intravedono le mutande”


Provate a indovinare quali siano stati miei clienti.

Però, in compenso, ho ricominciato a portare i jeans. 




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