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Mi chiamo Martina. Sono oggettivamente piena di speranze. In cosa, non si sa. Poco in me stessa, molto nel futuro, troppo nel passato. Ho vissuto sei anni a Torino. Scuola Holden, poi giornalista per il quotidiano La Stampa. Attualmente sono tornata ad Arezzo, dopo sei mesi di densissima vita a Bologna. Ancora devo capire perché.

Disclaimer

  • Le foto su questo blog sono state recuperate da Pinterest e dal web. Nel caso conosceste i nomi dei fotografi, ditemelo. Sarà cosa gradita. Chiaramente i testi sono miei. Chi oserà rubarli / plagiarli / copiarli avrà l'immediata caduta delle dita delle mani, dei piedi, dei capelli e anche un po' di malocchio. Giusto per avvertire.

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mercoledì 20 novembre 2013




Poco fa mi è capitato di sentire parlare mio padre al telefono con un suo amico di vecchia data, mentre inveiva contro il cellulare ormai datato che gli ha fatto cadere la linea almeno un paio di volte, senza rendersi conto che in realtà stava schiacciando con la guancia il tasto rosso.
Fino a qui, niente di strano, normale amministrazione.

Lo strano è nato quando ha chiuso la telefonata con l’espressione “ciao Gino, tante care cose!”
E l’ha detta seriamente.

Ecco. Mi si è per un attimo gelato il sangue nelle vene: quella frase la dico con le mie amiche per prenderci in giro, per far rimanere in voga espressioni così desuete che non si trovano nemmeno nei vecchi film.
Mai avrei immaginato che qualcuno, non appartenente al mondo delle soap-opera o dei serial sudamericani, potesse utilizzarla. E invece patapem! Il padre.

Voglio dire, le varie generazioni hanno un sacco di differenze, siamo tutti d’accordo. Il modo di intendere l’abbigliamento (“vestita così sembri una guardia svizzera”), la musica (“che è ‘sto casino?”), la nutrizione (“sushi che? Ma è legale il pesce crudo?”), gli orari (“sono le nove di domenica mattina, perché ancora sei a letto?”), lo stile di vita (“ai miei tempi a 28 anni eravamo tutti sposati con almeno un paio di figlioli, si vede che voi siete proprio degli immaturi”), ma più di tutti c’è un aspetto che davvero non potrà mai avere punti d’incontro.

La comunicazione.
Il vocabolario, le terminologie, i modi di dire. Universi paralleli e incomprensibili.

Mio padre usa locuzioni che credo si sia inventato di punto in bianco, e che probabilmente capisce solo lui.
“non te l’annaffio” = questa cosa te la dico in maniera concisa, senza troppi giri di parole
“siete due ciliegie” = siete due persone inseparabili
“ora ti ungo i denti” = ora ti faccio mangiare a forza. Altre volte la usa anche per costringere qualcuno a confidarsi

Mia nonna, prima di lui, fu la prima persona che mi aprì la strada al favoloso mondo delle terminologie diversamente comprensibili. Mentre, a merenda, mi rimpinzava di pane col vino e lo zucchero e mi costringeva a passare il tempo fissando la strada seduta davanti alla finestra, suggerendomi di contare quante auto rosse passassero nel corso del pomeriggio. Un’infanzia difficile, lo so.
“bragiulina” = la braciola di maiale. 
“iogusse” = lo yogurt. Che, per una donna con la terza elementare, era già troppo.
“amburga” = no, non c’è alcun retaggio tedesco. È semplicemente l’hamburger.
“cidrone” = il cetriolo. Gioiosamente coltivato nell’orto dietro casa.
“midolla” = la mollica del pane. Storpiata in maniera da sembrare un composto chimico.

Immaginatevi di crescere in una famiglia così. Dove ognuno si inventa modi di dire e vocaboli ex novo. 
Dove, insomma, ognuno parla a se stesso, perché il prossimo non riesce a capirlo.
È un po’ come dover imparare diverse lingue. 
Morte.


Tante care cose a tutti, amici.




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