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La mia foto
Mi chiamo Martina. Sono oggettivamente piena di speranze. In cosa, non si sa. Poco in me stessa, molto nel futuro, troppo nel passato. Ho vissuto sei anni a Torino. Scuola Holden, poi giornalista per il quotidiano La Stampa. Attualmente sono tornata ad Arezzo, dopo sei mesi di densissima vita a Bologna. Ancora devo capire perché.

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  • Le foto su questo blog sono state recuperate da Pinterest e dal web. Nel caso conosceste i nomi dei fotografi, ditemelo. Sarà cosa gradita. Chiaramente i testi sono miei. Chi oserà rubarli / plagiarli / copiarli avrà l'immediata caduta delle dita delle mani, dei piedi, dei capelli e anche un po' di malocchio. Giusto per avvertire.

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giovedì 17 gennaio 2013




Rigore e pazienza, pazienza e rigore. Certo.
Come avete potuto tranquillamente notare, sono due delle peculiarità che proprio non mi appartengono. Ma nemmeno lontanamente. Sarà che non aggiorno il blog da due mesi, sarà che nel frattempo ne ho viste tante, ascoltate tantissime, fatte meno. Ma qualcosina sì.
In ordine.


  • sono andata a Torino. Film Festival, vecchi amici, vecchi colleghi, vecchie speme e solita, goffa e informe realtà. 
  • ritrovato la sigaretta elettronica. Non era persa. Era nascosta sotto il sedile del passeggero. Auto che, in un momento di follia igienica, ho scelto di pulire. Dopo mesi sei/otto d’incuria. Ho così riesumato la sigaretta elettronica, quattro forcine, una mini sd, due accendini non funzionanti, un pacchetto di chewing-gum, un evidenziatore secco e così tanto tabacco da poterlo rivendere alla philip morris. Quello che è importante da sottolineare è che la sigaretta elettronica è ormai inutile, avendo ripreso a fumare come una ciminiera in attività. 
  • continuato ad andare in piscina. Superata la frase “donna inchiavabile”, ho cambiato corso e adesso nuoto in una piscina nascosta, senza spettatori, senza nessun altro se non l’insegnante e altre 6 papere a bagno. Non ho smesso di bere, mangio forse più schifezze di prima: ma almeno il culo non lievita. Mi pare.
  • capito il mio limite. Insomma, c'è chi non può concepire le scarpe senza la borsa abbinata, chi i maccheroni senza il formaggio (ok, è evidente che abbia fame, all'una di notte, ma sempre fame), chi un sano sfogo sessuale senza la successiva sigaretta, eccetera. Io, niente di tutto questo. Ok, si può imparare, siamo tutti d'accordo. Ma, quello che davvero in anni di travaglio e giramenti vorticanti di palle non sono mai riuscita a fare, è stato accettare la frase "me ne farò una ragione". Un amico, in questi due mesi lunghissimi, raccontandomi le sue divertenti avventure sentimentali ha detto la frase - e con un candore da non credere - "beh, se non lo lascerà, che problemi ci sono? Me ne farò una ragione". Ecco, io sono rimasta di stucco. Giuro, di stucco. Perché c'è gente - gente sana di mente, senza turbe psicologiche gravi o particolari disfunzioni sentimentali - che riesce ad accettare la fine dei legami d'amore senza trascinarli per giorni, mesi, anni, o direttamente per sempre. C'è una ricetta, un procedimento da seguire, un santo a cui appellarsi? No, nel senso, se ci fosse fatemelo sapere.
  • imparato a volermi più bene. Ahah scusate, non ho resistito, nelle lunghe liste una puttanata ci sta sempre benissimo. Non me ne vogliate.
  • due mie care amiche hanno partorito. Quando qualcosa che prima non c’era, ma che ti è cresciuta dentro per nove mesi - e più - e che adesso ti sta tra le mani, e che ha un peso specifico, che occupa uno spazio nel mondo e per il mondo, che ha un viso da toccare, un corpo da coprire, una purezza da proteggere, ecco, lì cambia tutto. Immagino che il mondo ti muti di prospettiva, che gli auguri e le speranze che hai sempre rivolto a te stesso ora siano totalmente inutili, secchi, vuoti come un guscio. E immagino che tu possa solo fare una cosa: muoverti. Perché il tempo non aspetta, l’imparare a essere un buon genitore non è scritto da nessuna parte, se non sulla pelle e negli occhi di tuo figlio. E allora preghi per fare le scelte giuste, per saper amalgamare la pazienza e la severità. Per dare a lui quello che ti sei negata, per trasmettergli l’amore per il rispetto e l’umiltà. Per insegnargli a capire che, prima di un genitore, sei un essere umano, che può sbagliare, piangere, sentirsi difettato. Ma il cui amore non sarà mai insufficiente. Per donargli la capacità di ridere, di volersi bene, di ascoltare. Se stesso prima degli altri. Ecco, le mie amiche mi hanno insegnato questo. Nel silenzio dei loro gesti. 


Il perdono, per due mesi di assenza, credo di meritarmelo. 




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